Stabilisce l’art. 1223 C.C. che il risarcimento del danno, per l’inadempimento o il ritardo, deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne sono conseguenza immediata e diretta. Nel primo caso, ricorre la figura del c.d. danno emergente che designa una posta attiva del patrimonio del soggetto e cioè un bene su cui si è maturata una sua legittima aspettativa, come tale attuale; nel secondo, caso ricorre la figura del lucro cessante che si riferisce, invece, alla violazione di un diritto non ancora maturato, relativo ad un bene non ancora presente nel patrimonio del soggetto ma che può diventarlo, attraverso un giudizio probabilistico di ragionevole certezza.
Mentre è più semplice, per il creditore, dimostrare la esistenza del danno emergente attraverso la prova della sua attualità e della conseguente lesione, più difficile appare l’assolvimento di tale onere per quanto riguarda il lucro cessante, essendo invece necessario dimostrare che laddove quel bene o quell’interesse si fossero concretizzati, in mancanza della condotta antigiuridica altrui, essi sarebbero stati di sua appartenenza.
Il danno è unico, comprensivo del danno emergente e del lucro cessante e va risarcito sempre integralmente a meno che la risarcibilità non sia circoscritta a taluni aspetti dello stesso.
Abbiamo voluto fare tali brevi premesse in quanto utili ai fini della definizione e ricorrenza, nello specifico, del c.d. danno da perdita di chance, un termine questo che deriva dal latino (cadentia), usato per esprimere il concetto “di buona possibilità di riuscita”.
La perdita di chance rappresenta un modello generale di danno e trova collocazione, in ambito giuridico, nel campo della responsabilità contrattuale e di quella extracontrattuale (aquiliana), secondo che sia causato, rispettivamente, da un inadempimento (o inesatto adempimento) nel contesto di un rapporto obbligatorio derivante da un contratto ovvero da un fatto illecito in assenza di un previo obbligo contrattuale. In quest’ultimo caso, come afferma la Cassazione (v. sentenza 1998/9911), affinché possa imputarsi una responsabilità aquiliana, in luogo della esclusiva responsabilità contrattuale, occorre che il fatto prospettato come generatore del danno sia completamente estraneo alla esecuzione della prestazione richiesta. In ambito contrattuale, invece, il danno da perdita di chance è risarcibile quale conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento prescindendosi da ogni considerazione della posizione soggettiva che sorregge tale danno.
Importante caratteristica del risarcimento del danno da perdita di chance, nello specifico settore contrattuale, è data dal fatto che non è onere del creditore insoddisfatto provare la negligenza del debitore come se quest’ultimo fosse l’autore di un illecito qualunque. È proprio il debitore che è onerato della prova, secondo cui l’inadempimento non è dovuto ad un impedimento che a sua volta non gli sia imputabile mentre, al contrario, per il creditore è sufficiente allegare la circostanza dell’inadempimento dimostrando la fonte (contrattuale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza (cfr. Cass. S.U. 30/10/2001 n. 13533).
Il risarcimento del danno da perdita di chance, presente nell’ordinamento francese da cui ha preso spunto l’esperienza italiana, è stato riconosciuto nel nostro Ordinamento da non molto tempo grazie all’opera interpretativa (decisiva) della Cassazione ed ha trovato applicazione in variegati settori, soprattutto quelli relativi alla responsabilità professionale sanitaria e dell’avvocato (temi che saranno trattati più approfonditamente e che rappresentano il terreno di elezione nel campo della responsabilità contrattuale) nonché, in ambito giuslavoristico, da cui, in verità, ha preso le mosse, quelli riguardanti molteplici fattispecie, come a titolo di esempio, il mancato avanzamento di carriera del dipendente nonostante i requisiti posseduti (cfr. Cass. 2013/8443), significandosi che “in tema è necessaria la allegazione e la prova di quegli elementi di fatto idonei a far ritenere che il regolare svolgimento della procedura selettiva avrebbe comportato una concreta, effettiva e non ipotetica probabilità di conseguire la promozione, in forza della quale probabilità si giustifica l’interesse stesso del lavoratore alla pronuncia di illegittimità della proceduta selettiva, altrimenti insussistente (v. Cass S.U. 23/09/2013 n. 21678; Cass. 10/01/2014 n. 3771).
La dequalificazione del prestatore di lavoro (v. Cass. 2004/11045) ed il demansionamento, costituiscono ulteriori esempi di danno risarcibile sotto il profilo della perdita di chance, segnalandosi che recentemente la Cassazione, con sentenza 07/11/2014 n. 23798, ha stabilito che il relativo risarcimento “non consegue automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, essendo necessaria la specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva, ma affettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suddetta categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova, ai sensi dell’art. 2697 C.C.,del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale.
E così ancora, il danno de quo è stato riconosciuto nel pregiudizio subito da un professionista per la irragionevole durata del processo penale conclusosi con una sentenza di assoluzione (Cass. 2005/18953), nella posizione dello studente (Appello Trieste 25/11/1987), dell’aspirante ballerino (Cass. 1998/9598) o del pugile dilettante (Trib. di Roma 28/10/99) che a causa di un incidente o di un negligente controllo sanitario perdono la possibilità di svolgere una futura attività lavorativa.
I danni subiti da un corridore automobilistico per la illegittima esclusione ad una gara automobilistica (Trib. Monza 21/02/1992), la perduta opportunità di partecipare ad un concorso a causa della mancata consegna del telegramma di convocazione costituiscono altri esempi significativi per la configurabilità del danno in esame.
Vi è poi una abbondante casistica della giurisprudenza amministrativa (recente) che, sul solco di quelle della Cassazione, ha ravvisato la possibilità di configurare l’esistenza di un danno da perdita di chance in tutte quelle ipotesi in cui vengono svolte procedure ad evidenza pubblica nella formazione del contratto di appalto e nella scelta del contraente, ove detto pregiudizio è risarcito a titolo di responsabilità precontrattuale, attraverso una scelta che è stata considerata una conquista giurisprudenziale.
Si cita fra le tante la sentenza del C.d.S. 15/09/2014 n. 4674 secondo cui “nell’ambito dei procedimenti a evidenza pubblica può configurarsi, accanto ad una responsabilità civile per lesione dell’interesse legittimo derivante dalla illegittimità degli atti o dei provvedimenti relativi al procedimento amministrativo di scelta del contraente, una responsabilità di tipo precontrattuale per violazione di norme imperative che pongono regole di condotta, da osservarsi durante l’intero svolgimento della procedura di evidenza pubblica. Le predette regole di validità e di condotta operano su piani distinti: non è necessaria la violazione delle regole di validità per aversi responsabilità precontrattuale e, viceversa, la inosservanza delle regole di condotta può non determinare l’invalidità della procedura di affidamento. Il danno risarcibile a titolo di responsabilità precontrattuale in relazione alla mancata stipula di un contratto d’appalto o in relazione all’invalidità dello stesso, comprende le spese sostenute dall’impresa per aver partecipato alla gara (danno emergente), ma anche e soprattutto la perdita, se adeguatamente provata, di ulteriori occasioni di stipulazione di altri contratti altrettanto o maggiormente vantaggiosi, impedite proprio dalle trattative indebitamente interrotte (lucro cessante), con esclusione del mancato guadagno che sarebbe derivato dalla stipulazione ed esecuzione del contratto non concluso. L’esame della sussistenza del danno da perdita di chance interviene attraverso un processo deduttivo secondo il criterio, elaborato dalla giurisprudenza della Cassazione, del “più probabile che non” e, cioè, alla luce di una regola di giudizio che ben può essere integrata dai dati della comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali”.
Una interessante pronuncia della Cassazione 13/11/2014 n. 23971 è intervenuta sulla configurabilità del diritto al risarcimento danni da perdita di chance individuata nella perdita della concorrenzialità lavorativa, a seguito di un incidente stradale in cui era incorso un giovane inoccupato riportando una invalidità pari al 70%. Ebbene, ha chiarito la S.C. che in una simile ipotesi l’esigenza di garantire l’integrale risarcimento del danno giustifica la liquidazione equitativa del danno derivante dalla perdita della concorrenzialità lavorativa, peraltro “in un contesto storico e sociale aggravato dalla disoccupazione giovanile”.
2. SULLA NOZIONE DI DANNO DA PERDITA DI CHANCE – DANNO EMERGENTE E LUCRO CESSANTE
Come già ricordato, è da poco tempo che la giurisprudenza ( sia quella civile che amministrativa) ha avvertito l’esigenza di prevedere una forma di risarcimento del danno da “perdita di possibilità” in maniera autonoma, a cominciare dalla sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 500 del 1999, con cui sono state ritenute meritevoli di tutela quelle “legittime aspettative di natura patrimoniale, purché si tratti di legittime aspettative e non di aspettative semplici in tal senso”.
È con le sentenze della Cassazione 2003/3999 – 2004/440 che si giunge ad una compiuta definizione del danno da perdita di chance ed a circoscriverne l’applicazione.
Definizione di chance. In buona sostanza, nell’odierno contesto giuridico la chance può definirsi come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, non una mera aspettativa di fatto.
Ciò posto, va subito rilevato che rimangono dibattuti la natura del danno da perdita di chance e di conseguenza i parametri indispensabili per la sua risarcibilità.
È appena il caso di rilevare, al riguardo, che sul detto tema si scontrano due opposti orientamenti giurisprudenziali e dottrinali: l’uno, prevalente, che fa capo alla c.d. tesi ontologica, l’altro, minoritario, che fa riferimento alla c.d. tesi eziologica laddove, nel primo caso, la chance deve intendersi riferita ad un danno emergente comunque attuale e concreto (ma non realizzato), trattandosi di bene suscettibile di valutazione patrimoniale autonoma, mentre nel secondo si parla di chance in termini di lucro cessante nel senso che si ammette la risarcibilità solo quando l’occasione perduta si presenta, attraverso un giudizio prognostico postumo, assistito da considerevoli probabilità di successo o ragionevole probabilità di successo.
La tesi ontologica, sostenuta inizialmente dalla giurisprudenza giuslavoristica (v., ex multis, Cass. 2010/5119 e Cass. 2007/14820) ma anche da quella civile ( v. Cass. S.U. 2009/1850, 2008/23846 e quella già citata 2004/4400) nonché amministrativa (v., ex multis da ultimo, Consiglio di Stato 08/04/2014 n. 1672 e Consiglio di Stato 15/09/2014 n. 4674), valorizza la chance come bene giuridico già presente nel patrimonio del soggetto la cui lesione configura una perdita (e non un mancato guadagno), da intendersi come incremento patrimoniale che il danneggiato avrebbe conseguito con la utilizzazione della prestazione inadempiuta o del bene leso; trattandosi di una parte attiva del patrimonio “il danno da perdita di chance non sarebbe configurabile come danno futuro, legato alla ragionevole probabilità di un evento, ma come danno concreto, attuale e certo, ricollegabile alla perdita di una prospettiva favorevole già presente nel patrimonio del soggetto”.
Come efficacemente sottolineato dalla dottrina, il danno che si risarcisce è un danno riguardante la perdita di una occasione, in altro senso, esso non si identifica con la perdita di un risultato utile, sicuro ma con il semplice venir meno di una apprezzabile possibilità di conseguirlo (v. C.d.S. 2014/1672 e 2014/4674 già citate).
La qualificazione della chance come danno emergente comporta delle conseguenze sul piano probatorio nel senso che il creditore-danneggiato soggiace ad una prova semplificata, dovendo dimostrare la mera possibilità di raggiungere il risultato sperato in un contesto in cui il nesso di causalità non subisce interferenze in quanto la prova stessa deve riguardare la consistenza percentuale di un bene già presente nel patrimonio del soggetto.
La necessità di evitare una prova gravosa a carico del soggetto, relativamente ad un danno che si prospetta nel futuro, ha indotto la dottrina e la giurisprudenza a sostituire il criterio della “certezza” degli effetti della condotta dannosa con quello della “probabilità” dovendosi sostituire gli usuali criteri di interpretazione del nesso causale, fondati sulla teoria della conditio sine qua non, con quello meno rigoroso costituito dal “più probabile che non” e cioè alla luce di una regola di giudizio che deve però essere integrata dai dati della comune esperienza, evincibile dalla osservazione dei fenomeni sociali (così C.d.S. 2014/4674 ma anche Cass. 2013/21255, sul famoso caso Fininvest/CIR- e da ultimo Cass. 2014/7195).
Quindi, ai fini del risarcimento del danno da perdita di chance, il Giudice, riscontrata la esistenza del nesso causale tra la lesione e la perdita di opportunità favorevole, dovrà esaminare se sia stata dimostrata la ragionevole probabilità di verificazione della chance potendosi, al riguardo, affidare a presunzioni che, purtuttavia, operano se ed in quanto specificamente allegate dal creditore-danneggiato.
Al riguardo, illuminante, fra le tante, appare Cass 21/07/2003 n. 11322 secondo cui: “posto che la chance è un’entità patrimoniale, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, la sua perdita configura un danno attuale e risarcibile (consistente non in un lucro cessante bensì nel danno emergente da perdita di possibilità attuale), a condizione che il soggetto che agisce per il risarcimento ne provi, anche secondo un calcolo di probabilità o per presunzioni la sussistenza (nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di appello che aveva ritenuto non sufficientemente provata la possibilità di intraprendere la attività di calciatore professionista da parte di un calciatore dilettante costretto ad interrompere la carriera a seguito di un incidente automobilistico)”.
La tesi eziologica. Al contrario, la chance, nella tesi eziologica, non è vista come una utilità a sé stante, quindi la relativa perdita non costituisce perdita di un bene patrimoniale ma solo l’annullamento di un presupposto necessario per il conseguimento del bene sperato, ed il danno si identifica con il quantum lucrari potuit.
La chance così intesa si configura come una occasione persa.
In questi termini vedasi, ex multis, Cass. 2009/1767, Cass. 2010/20351, Cass. 2011/11609, Cass. 2013/11548.
Riassumendo sul punto,è chiaro che attraverso la tesi ontologica l’onere probatorio, posto a carico del danneggiato, è meno gravoso laddove invece secondo la tesi eziologica il danno da perdita di chance è risarcibile “purché risulti dimostrato sia il nesso di causalità sia la ragionevole probabilità del suo verificarsi, in base a circostanze certe e puntualmente dedotte”.
Per rendere più chiara la differenza tra le due contrapposte tesi, la dottrina è ricorsa all’esempio del “cliente” il quale lamenti un danno da perdita di chance (risultato positivo di una lite) ricollegato alla mancanza dell’appello non interposto, per negligenza professionale, dal proprio avvocato. Secondo la tesi eziologica, il soggetto danneggiato, soccombente nel giudizio di primo grado, dovrà dimostrare che attraverso l’impugnazione avrebbe senz’altro “vinto la causa”, essendo onerato, quindi, di una prova per così dire diabolica, dovendo immaginare ipoteticamente tutto quanto sarebbe potuto accadere in appello e conseguentemente dimostrare che niente di quanto ipotizzato avrebbe compromesso il buon esito del processo.
Secondo la teoria ontologica, invece, la prova diventerebbe semplificata, dovendo “il cliente dell’avvocato che non ha interposto appello” dimostrare che, se la sentenza fosse stata tempestivamente gravata, vi erano buone possibilità di vincere la causa.
In conclusione, aderendo alla tesi eziologica (con conseguente danno da lucro cessante) la perdita di chance potrà trovare ristoro solo quando la percentuale di possibilità favorevole (di raggiungimento del risultato auspicato) è superiore almeno un una misura pari al 51% rispetto alle possibilità sfavorevoli.
Tale impostazione, secondo i sostenitori della tesi ontologica, finirebbe per confondere il piano del quantum con quello dell’an debeatur, per cui può rilevare e venire in considerazione solo la esistenza di una possibilità ragionevole e non trascurabile di ottenere un risultato utile.
A questo punto, va sottolineato che alla concreta liquidazione del danno si debba procedere attraverso un criterio prognostico fondato sulla possibilità del risultato utile assumendo, come parametro di valutazione, il vantaggio economico complessivamente realizzabile dal danneggiato, diminuito di un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di possibilità di conseguirlo, ricavabile dagli elementi della singola fattispecie dedotta in giudizio. Qualora detto meccanismo non sia possibile, la giurisprudenza ammette l’applicazione del criterio equitativo ex art. 1226 c.c. semprechè risulti provato il danno risarcibile, pure in base ai ricordati calcoli di probabilità.
Mette conto di rilevare che la domanda di determinazione, in via equitativa, del danno da perdita di chance, trattandosi di danno potenziale, non assimilabile a quello futuro, non può considerarsi ricompresa, nemmeno per implicito, in una domanda generica di risarcimento danni e va quindi esplicitata specificamente (così Cass. 29.11.12 n. 21245; Cass. 13.06.14 n. 13491).
3. SULLA RESPONSABILITÀ DEL MEDICO, VIOLAZIONE DEL DIRITTO ALLA SOPRAVVIVENZA DEL PAZIENTE
A questo punto, delineate le coordinate esegetiche del c.d. danno da perdita di chance, vanno esaminati alcuni esempi in cui concretamente la giurisprudenza ha riconosciuto la risarcibilità di detto pregiudizio.
Come anticipato, i casi più frequenti sono quelli in tema di responsabilità sanitaria conseguente ad un errato intervento chirurgico che, laddove fosse stato eseguito correttamente, avrebbe senz’altro “inciso positivamente sulla durata della vita del paziente e/o miglioratone la qualità, identificandosi in detta situazione una perdita di chance risarcibile”.
A tal riguardo la S.C, aderendo alla c.d. tesi ontologica, ha reputato che “ quando sia stata fornita la dimostrazione, anche in via presuntiva e di calcolo probalistico, dell’esistenza di una chance di consecuzione di un vantaggio in relazione ad una determinata situazione giuridica, la perdita di tale chance è risarcibile come danno alla situazione giuridica di cui trattasi, indipendentemente dalla dimostrazione che la concreta utilizzazione delle chance avrebbe preventivamente e presumibilmente determinato la consecuzione del vantaggio, essendo sufficiente anche la sola possibilità di tale vantaggio. La idoneità della chance a determinazione presuntivamente o probabilmente ovvero solo possibilmente la detta consecuzione è, viceversa, rilevante soltanto ai fini della concreta individuazione e quantificazione del danno, da effettuarsi eventualmente in via equitativa, posto che nel primo caso il valore della chance è certamente maggiore che nel secondo e, quindi, lo è il danno per la sua perdita, che del resto, in presenza di una possibilità potrà anche essere escluso, all’esito di una valutazione in concreto della prossimità della chance rispetto alla consecuzione del risultato e della sua idoneità ad assicurarla”. (così Cass. 14.06.2011 n. 12961: il caso riguardava l’omessa diagnosi di un processo morboso terminale che aveva determinato la tardiva esecuzione dell’intervento chirurgico e di conseguenza l’esito definitivo di detto processo, verificatosi anzitempo, e, quindi, la perdita da parte del paziente di conservare durante quel decorso una migliore qualità della vita nonché la chance di vivere qualche mese in più rispetto a quelli poi vissuti).
Situazione questa non dissimile da quella esaminata dalla Cassazione nella recente sentenza (27.03.2014 n. 7195) in cui è stato ritenuto risarcibile il danno conseguente ad un errato intervento chirurgico praticabile per rallentare l’esito certamente infausto di una malattia e che abbia, quindi, comportato la perdita per il paziente di vivere per un periodo più lungo rispetto a quello poi vissuto. Anche in detta fattispecie è stato ritenuto che le possibilità di sopravvivenza misurata in astratto secondo criteri percentuali, rilevano ai fini della liquidazione equitativa del danno che dovrà altresì tener conto dello scarto temporale fra la durata della sopravvivenza effettiva e quella della sopravvivenza possibile in caso di intervento chirurgico corretto.
Tali decisioni riprendono e fanno proprio sostanzialmente un orientamento della giurisprudenza di legittimità che ha un significativo precedente nella sentenza 18.09.2008 n. 23846 ed ancora in altra più risalente del 04.03.2004 n. 4400 (già citata).
Nelle fattispecie scrutinate, il danno risarcibile appare identificarsi non già con la perdita di un risultato ma piuttosto con la possibilità di conseguire un risultato utile o comunque migliore: l’errore del medico avrebbe comportato “più probabilmente che non” la perdita della possibilità di una vita più lunga da parte del paziente statisticamente accertabile sulla base di indagini epidemiologiche, in caso di intervento chirurgico corretto.
4. SULLA RESPONSABILITA’ DELL’AVVOCATO IN RAGIONE DELL’ESITO NEGATIVO DELLA LITE. LA PRESTAZIONE PROFESSIONALE CONFIGURA UNA OBBLIGAZIONE DI MEZZI O DI RISULTATO?
Per quanto riguarda la responsabilità dell’avvocato, la ricostruzione del danno in termini di perdita di chance ha sostanzialmente permesso di superare la c.d. dicotomia fra obbligazione di mezzi (a cui soggiacerebbe il professionista nell’espletamento dell’incarico conferitogli ) e obbligazione di risultato (per cui il professionista non sarebbe tenuto ad assicurare l’esito positivo della lite). Per la verità, sulla correttezza di tale distinzione da tempo dottrina e giurisprudenza nutrono serie perplessità ponendo in risalto la dubbia o attenuata ricorrenza, laddove viene sempre più messa a fuoco la congruità ed adeguatezza della prestazione effettuata dall’Avvocato, in una parola la sua diligenza nell’espletamento dell’incarico assunto, coerentemente con quanto prescritto dall’art. 1176 C.C. in combinato disposto con l’art. 1218 C.C.., salva l’ipotesi di cui all’art. 2236 C.C.. per cui il professionista risponderebbe solo in caso di dolo o colpa grave allorché la prestazione richiesta comporti la soluzione di questioni tecniche di particolare difficoltà.
Sul superamento della distinzione fra obbligazioni di mezzo e di risultato, vedasi Cass. S.U. 28.07.2005 n. 15781.
Ed, invero, in materia di azione di responsabilità nei confronti di un professionista, di recente la giurisprudenza di merito e di legittimità, inquadrando tale responsabilità nell’ambito della “perdita di chance” ha affermato (con riferimento a fattispecie in cui era scrutinata la condotta professionale di un avvocato), che laddove la negligenza del professionista medesimo abbia causato al cliente la perdita della possibilità di intraprendere o proseguire una lite in sede giudiziaria è fonte di responsabilità ove si accerti la ragionevole probabilità che la situazione lamentata avrebbe avuto per il cliente, una diversa e più favorevole evoluzione con l’uso dell’ordinaria diligenza professionale.
Anche in questo settore l’adesione giurisprudenziale alla tesi ontologica, meno rigorosa di quella c.d. eziologica, ha permesso di ritenere, ai fini della individuazione del rapporto di causalità fra inadempimento del professionista e danno, che non è necessaria “la certezza morale dell’esito favorevole della situazione del cliente, essendo sufficiente per l’appunto, la semplice probabilità di una eventuale diversa evoluzione della stessa (v. ,ex multis, Cass. 13.12.2001 n. 15759; Cass. 14.05.20013 n. 11548 – Trib. Bari 14.14.2004 n. 2078).
In luogo, quindi, “del sicuro fondamento dell’azione che avrebbe potuto essere proposta e coltivata (v. Cass. 17/11/1999 n. 722; cfr. anche Cass. 2011/15385 e Cass. 2012/22376) viene fatto riferimento al criterio probabilistico circa gli esiti della lite laddove il comportamento dell’avvocato fosse stato improntato al dovere di diligenza richiestogli.
In buona sostanza, gli ultimi orientamenti giurisprudenziali, in conformità alle decisioni adottate in altri settori della responsabilità professionale (quella medica in particolare), tendono a ritenere provato il nesso causale tra inadempimento dell’avvocato e danno attraverso un criterio non di certezza degli effetti della condotta ma di mera probabilità, in un contesto più favorevole per il cliente. In questo senso, vedasi da ultimo Cass. 14/05/2013 n. 11548; Cass. 13/02/2014 n. 3355; Cass. 22/05/2014 n. 11351; Cass. 26/08/2014 n. 18274.
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