Jobs Act, cosa c’è dietro la modifica dell’articolo 18

Alla fine ci sono riusciti. Dopo mesi di litigi, strappi istituzionali, polemiche a non finire e qualche atto di forza, finalmente governo e sindacati potranno ritenersi soddisfatti: con il Jobs Act, che tra poche ore diventerà legge, ingiustizia è fatta.

In principio infatti, esistevano due volontà apparentemente discordi. Da una parte, il governo liberista di sinistra, quello a trazione Renzi-Federica Guidi-Padoan, che puntava a distruggere per sempre il totem dell’articolo 18 e ad aprire una nuova era. Dall’altra, in trincea come i sanculotti della Rivoluzione francese, si stagliavano i sindacati, in particolare quelli più radicali, con Cgil e la costola Fiom su tutti a contrastare la marcia del Jobs Act. Cisl e Uil, intanto, i fratelli “minori” – spesso fratelli coltelli – assumevano fin da subito una linea più morbida verso l’esecutivo.

Con la presentazione del disegno di legge di riforma del lavoro il governo mirava a introdurre qualche garanzia in più per i giovani precari, togliendo di torno il paracadute anacronistico dell’articolo 18. Insomma, il fine era chiaro: favorire la disciplina dei licenziamenti per dare agli imprenditori una ragione in più ad assumere qualche nuova risorsa e, così, favorire l’occupazione. Non certo una riforma epocale nei contenuti, ma un testo che finalmente badava alla massa di giovani laureati dispersi tra stage infiniti e contrattini a tempoa che al di là dei 30 anni.

Non appena la proposta è arrivata in Parlamento, però, si è scatenata la furia dei sindacati, con lo scontro che ha assunto livelli sempre più accesi, e il clima di esasperazione nel Paese che non ha continuato ad aumentare. Ne sono d’esempio le manganellate volate a Roma sui manifestanti dell’Ast di Terni, con il leader della Fiom Landini capofila. Lo stesso Landini che, qualche giono dopo, dava cenni di sfinimento da cortei e ospitate continue nei talk show, arrivando a sostenere come “il governo non ha il sostegno delle persone oneste”. Un autogol che lo ha riportato dritto nell’ombra, dopo avergli fatto accarezzare il sogno inconfessato di un radioso (?) avvenire in politica.

Ma dall’altra parte, il governo prepara i caroselli su tv e giornali, perché sarà comunque riuscito nell’intento di cambiare la disciplina dei contratti. Senza specificare, però, che proprio in questo ha finito per mancare il suo obiettivo iniziale, contravvenendo, insieme, alle richieste provenienti dai sindacati e dalla minoranza interna mai così combattiva (perché forse, ha riguadagnato i riflettori?).

Impossibile? Non proprio. E’ tutto scritto al punto c) del comma 7 all’articolo unico del nuovo testo, che ha rimpiazzato la versione iniziale, passata settimane fa con la fiducia la Senato. Ora, il testo del Jobs Act che diventerà legge, recita sull’articolo 18:

“previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento”

con la parte in grassetto aggiunta in seguito all’accordo con i seguaci dei vari Cuperlo, Fassino and Company, che non hanno votato la riforma, ma hanno comunque consentito di evitare il voto di fiducia alla Camera.

Cosa è cambiato? Semplice: con la formulazione precedente, le garanzie su licenziamento disciplinare ed economico sarebbero decadute indistintamente per tutti i lavoratori, o, almeno, il testo, omettendo la specifica, avrebbe suggerito una riforma in tal senso. La nuova formulazione dell’articolo 18, essendo al di fuori del provvedimento e rinviata ai decreti delegati, non era collegata al solo contratto a tutele crescenti. Ragione che avrebbe fatto pensare come, in caso di modifiche, tutti i lavoratori sarebbero finiti sullo stesso piano, con meno alibi e qualche incentivo in più ai giovani, in particolare le neomamme. Ora, invece, con l’indicazione specifica del nuovo contratto, la frittata è pronta. Gli unici “beneficiari” del nuovo articolo 18 saranno de iure i lavoratori assunti a seguito dell’entrata in vigore della nuova tipologia contrattuale, che dovrebbe arrivare già a gennaio se i tempi sui decreti attuativi saranno rispettati. Per tutti gli altri occupati, nulla cambia. Una sorta di Fornero-bis che non farà altro che aumentare le già profondissime disparità nel mondo del lavoro.

Così, dunque, si realizzano gli scopi di entrambe le parti in causa: i sindacati hanno raggiunto l’intento di difendere un diritto ormai sorpassato che, però, con la nuova formulazione, si trasforma in privilegio, mentre il governo dei quarantenni può tranquillamente sbandierare di aver modificato l’articolo 18, ma a dispetto dei coetanei. Nessuno, però, racconta che il braccio di ferro di questi mesi sarà servito a un solo scopo: creare definitivamente lavoratori di Serie A e di Serie B, con questi ultimi rei dell’unica colpa di essere più giovani.

 

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Francesco Maltoni

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