Il presente articolo è firmato dall’avvocato Antonio Di Tullio d’Elisiis.
Ebbene, in questo decisum, il magistrato di sorveglianza ha compiuto una complessa ed articolata disamina sul come ed in che modo sia possibile provvedere a chiedere la riduzione della pena o il risarcimento del danno nei casi tipizzati dalla norma suesposta.
Come è risaputo, l’art. 1, co. I, del decreto legge, 26 giugno 2014 n.92 convertito, con modificazioni dalla Legge 11 agosto 2014, n. 117, prevede che
«1. Quando il pregiudizio di cui all’articolo 69, comma 6, lett. b), consiste, per un periodo di tempo non inferiore ai quindici giorni, in condizioni di detenzione tali da violare l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, su istanza presentata dal detenuto, personalmente ovvero tramite difensore munito di procura speciale, il magistrato di sorveglianza dispone, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio.
2. Quando il periodo di pena ancora da espiare e’ tale da non consentire la detrazione dell’intera misura percentuale di cui al comma 1, il magistrato di sorveglianza liquida altresi’ al richiedente, in relazione al residuo periodo e a titolo di risarcimento del danno, una somma di denaro pari a euro 8,00 per ciascuna giornata nella quale questi ha subito il pregiudizio. Il magistrato di sorveglianza provvede allo stesso modo nel caso in cui il periodo di detenzione espiato in condizioni non conformi ai criteri di cui all’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali sia stato inferiore ai quindici giorni.
3. Coloro che hanno subito il pregiudizio di cui al comma 1, in stato di custodia cautelare in carcere non computabile nella determinazione della pena da espiare ovvero coloro che hanno terminato di espiare la pena detentiva in carcere possono proporre azione, personalmente ovvero tramite difensore munito di procura speciale, di fronte al tribunale del capoluogo del distretto nel cui territorio hanno la residenza. L’azione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia cautelare in carcere. Il tribunale decide in composizione monocratica nelle forme di cui agli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile. Il decreto che definisce il procedimento non e’ soggetto a reclamo. Il risarcimento del danno e’ liquidato nella misura prevista dal comma 2».
Posto ciò, nel provvedimento in commento, il Magistrato di sorveglianza, nel dichiarare inammissibile l’istanza proposta del detenuto ai sensi dell’art. 35-ter, comma 1, O.P. (introdotto dall’art. 1 d.l. 26 giugno 2014 n. 92, convertito, con modificazioni, nella l. 11 agosto 2014 n. 117) con cui costui, «lamentando condizioni detentive contrarie alla dignità della persona (vietate dall’art. 3 CEDU)», chiedeva «conseguentemente la riduzione di pena prevista a titolo risarcitorio dallo stesso art. 35-ter cit.», ha precisato quanto segue.
In primo luogo, è stato rilevato che, affinchè possa essere esperito un ricorso di questo tipo, devono ricorrere i seguenti presupposti:
– «accertata sussistenza di un pregiudizio afferente alla violazione del diritto fondamentale, quale sancito dall’art. 3 CEDU»;
– «la lesione accertata, per fondare una pronuncia di addebito a carico dell’Amministrazione penitenziaria suscettibile di risarcimento, deve consistere in un pregiudizio della posizione soggettiva del soggetto detenuto o internato (art. 69, comma 6, lett. b), ord. penit.)».
Da tale duplice ordine di considerazioni, il giudice di sorveglianza è pervenuto alla conclusione alla stregua del quale: fuoriescono
«dal concetto di “attualità del pregiudizio” sia le eventuali violazioni al diritto convenzionale subite in relazione a detenzioni pregresse rispetto all’attuale vicenda esecutiva (sofferte, cioè, in forza di titoli esecutivi diversi da quello attualmente in esecuzione); sia le violazioni che, pur riferite a detenzione riferibile all’esecuzione in corso al momento della domanda, non siano tuttavia attuali poiché medio tempore venute meno (per l’intervento della magistratura o della stessa Amministrazione penitenziaria nell’esercizio della propria sfera di discrezionalità organizzativa)».
E’ stato altresì precisato, in secondo luogo, che l’“attualità del pregiudizio”
«deve sussistere sia al momento della presentazione del reclamo, fondando tale elemento l’interesse concreto ad agire dell’interessato, sia – ai sensi dell’art. 69, comma 6 , lett. b), ord. penit. – al momento della decisione sul medesimo, poiché l’istituto del reclamo è elettivamente finalizzato ad assicurare quella (e solo quella) tutela urgente ed immediata che inerisce alla natura stessa della giurisdizione attribuita al magistrato di sorveglianza nella prospettiva delineata dalla Corte di Strasburgo con la sentenza Torreggiani: che è, appunto, insieme inibitoria e risarcitoria del danno che si è prodotto fino alla decisione del magistrato di sorveglianza»
in quanto
«la collocazione del rimedio risarcitorio in esame appare coerente con la natura propria della giurisdizione attribuita alla magistratura di sorveglianza, che viene attivata nei limiti in cui si tratti di intervenire a riparare un pregiudizio in atto nei confronti di un soggetto detenuto o internato».
Infine, per quanto attiene il riparto dell’onere probatorio, è stato fatto presente come sia necessario che
«l’interessato deduca fin dall’atto iniziale della procedura le circostanze di fatto e gli elementi di prova posti a fondamento della pretesa risarcitoria azionata».
Ed infatti, da un lato, è stato postulato che,
«attesa la natura civilistica dell’azione esperibile ai sensi dell’art. 35-ter, ord. penit., deve ritenersi che in capo all’interessato non sussista un mero onere di allegazione delle circostanze di rilievo ai fini della decisione giudiziale; bensì che gli incomba una ben precisa e completa indicazione degli elementi di fatto e di diritto che intende porre a fondamento della pretesa risarcitoria»,
dall’altro, è stato rilevato che tale
«onere è, infatti, coerente con la strutturazione della procedura e funzionale sia all’esplicarsi – nella cornice giuridico-fattuale disegnata dall’atto introduttivo del giudizio – dell’attività istruttoria di cui agli artt. 666, comma 5 cod. proc. pen. e 185, disp. att. cod. proc. pen.; sia all’esercizio del diritto di difesa dell’Amministrazione penitenziaria convenuta, la quale ha il diritto di conoscere con esattezza le contestazioni che sono mosse al suo operato al fine di predisporre un’adeguata linea difensiva nel rispetto di tutte le garanzie del procedimento civile in tema di assunzione delle prove e della tutela del contraddittorio».
Più in particolare, il Magistrato di sorveglianza di questo Tribunale, partendo dal presupposto secondo cui l’
«art. 666, comma 2, c.p.p., stabilisce che l’istanza è inammissibile quando risulta manifestamente infondata “per difetto delle condizioni di legge”, per tali dovendosi intendere tanto le “condizioni di ammissibilità” (requisiti formali e processuali necessari per procedere all’esame del merito) quanto le “condizioni di merito” (requisiti necessari per l’accoglimento della domanda)»,
è pervenuto alla conclusione alla stregua del quale:
«i requisiti minimi che la domanda deve contenere – a pena di inammissibilità – coincide con l’allegazione delle condizioni di merito per l’accoglimento della domanda, e l’assolvimento dei requisiti formali e processuali necessari per procedere all’esame del merito (quali la determinazione dell’oggetto della domanda e l’indicazione degli elementi di fatto e di diritto posti a sostegno della medesima)».
Ciò premesso, il provvedimento in commento si palesa in larga parte condivisibile salvo i profili di criticità che, ad umile avviso di chi scrive, sono ravvisabili nel caso di specie.
Un primo profilo di criticità inerisce invero l’attualità del pregiudizio in rapporto a quando esso debba sussistere affinchè si possa proporre una richiesta di questo tenore.
Nel provvedimento in commento, è difatti richiesto, come suesposto, che l’attualità del pregiudizio deve perdurare:
– sia al momento della presentazione del reclamo, fondando tale elemento l’interesse concreto ad agire dell’interessato;
– sia – ai sensi dell’art. 69, comma 6 , lett. b), ord. penit. – al momento della decisione sul medesimo.
Tale conclusione argomentativa è stata giustificata, come parimenti suesposto, alla luce della prospettiva delineata dalla Corte di Strasburgo con la sentenza Torreggiani.
A fronte di tale duplice passo argomentativo, lo scrivente fa sommessamente presente che, nella decisione Torreggiani, è stato osservato che
«chiunque abbia subito una detenzione lesiva della propria dignità deve potere ottenere una riparazione per la violazione subita» (Benediktov c. Russia, n. 106/02 del 10/05/2007 § 29; e Ananyev e altri c. Russia, nn. 42525/07 + 60800/08 del 10/01/2012, §§ 97-98 e 210-240)
e quindi, l’uso del verbo “abbia subito” lascia chiaramente intendere che, almeno in linea di principio, una riparazione può operare anche se, al momento in cui si decida, la violazione è venuta meno.
Del resto, limitare, in assenza di una previsione normativa che introduca un divieto di questo tipo, il ricorso sino al momento in cui il giudice è chiamato a decidere (lasso temporale tra l’altro non determinato e non determinabile dato che, come noto, l’art. 666, co. II, c.p.p. si limita a stabilire che il giudice decide con decreto, «se la richiesta appare manifestatamente infondata per difetto delle condizioni di legge ovvero costituisce mera riproposizione di una richiesta già rigetta, basata sui medesimi elementi», un preciso riferimento temporale entro cui ciò deve avvenire) rappresenta una restrizione ermeneutica dell’art. 35 ter o.p. disancorata da precisi riferimenti giuridici e/o temporali.
Oltre a ciò, il riferimento alla sussistenza del pregiudizio sino al momento della decisione sembrerebbe evocare (il condizionale è d’obbligo) quell’orientamento giurisprudenziale, di matrice amministrativistica, secondo cui, allorchè si propone un ricorso innanzi ad un giudice amministrativo, vi devono essere talune condizioni che devono perdurare sino al momento della decisione.
Nel dettaglio, i requisiti richiamati in questo indirizzo interpretativo sono i seguenti: a) la legittimazione a ricorrere; b) l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. o l’interesse al ricorso; c) la legitimatio ad causam o la legittimazione attiva/passiva(ex plurimibus, Consiglio di Stato, sez. V, sentenza ud. 22/10/2013 (dep. 23/10/2013), n. 5131).
Ebbene, nessuna di queste condizioni, a parere di scrive, ricorre nel caso di specie.
Non la prima, ben rivestendo, il detenuto che ha subito un trattamento carcerario violativo dell’art. 3 CEDU, una posizione qualificata per poter adire il giudice di sorveglianza (qual è quella di colui che, riveste lo status carcerato); non la seconda, ben avendo il detenuto l’interesse ad ottenere una decurtazione della pena o un ristoro monetario; non la terza, ben essendo il detenuto, in detta ipotesi, titolare di un rapporto controverso, in qualità di parte danneggiata, nei confronti del D.A.P. (parte danneggiante).
D’altronde, lo stesso C.S.M., nel parere tecnico formulato in relazione a questo provvedimento legislativo, nel rilevare che
«le domande azionabili sono unicamente quelle riferibili a situazioni in cui la lesione dei diritti della persona incarcerata, conseguente al sovraffollamento, fosse attuale al momento della richiesta di accertamento e non si fosse ormai consumata»,
ha chiaramente fatto intendere come siffatta attualità non debba permanere sino all’emissione della decisione da parte del magistrato di sorveglianza.
Si ritiene pertanto più confacente al quadro normativo circoscrivere l’attualità del pregiudizio sino al momento in cui viene proposta la domanda non estendendola all’opposto sino a quello in cui il giudice decide sulla medesima.
Invece, diverso è il caso in cui, nel momento in cui il giudice è chiamato a decidere il periodo di detenzione da scontare, esso è inferiore ai quindici giorni.
In questo caso, è condivisibile quanto sottolineato in quella parte del decreto emesso dal Magistrato di sorveglianza di Torino, nella persona del Dott. G. Vignera, in data 26/09/2014, secondo cui «la disposizione ex art. 35-ter, comma 2, ultima parte, O.P., va relazionata a quelle situazioni in cui il pregiudizio, esistente (ed attuale) al momento della proposizione della domanda, nelle more del procedimento sia venuto meno ed al momento della decisione risulti inferiore a 15 giorni».
Ed invero, detta disposizione legislativa consente al detenuto, che non può più usufruire dello sconto di pena previsto dal decreto summenzionato, di potere comunque beneficiare di una somma di denaro a titolo di ristoro.
Venendo al secondo profilo di criticità ossia la questione inerente il riparto dell’onere probatorio, l’assunto decisorio ivi enunciato secondo cui, per un verso, spetterebbe alla parte interessata una ben precisa e completa indicazione degli elementi di fatto e di diritto che intende porre a fondamento della pretesa risarcitoria, per altro verso, non è sufficiente un mero onere di allegazione delle circostanze di rilievo ai fini della decisione giudiziale, contrasta con quanto affermato, nella stessa sentenza Torreggiani, in cui è dedotto chiaramente che
«la procedura prevista dalla Convenzione non si presta sempre ad un’applicazione rigorosa del principio affirmanti incumbit probatio (l’onere della prova spetta a colui che afferma) in quanto, inevitabilmente, il governo convenuto è talvolta l’unico ad avere accesso alle informazioni che possono confermare o infirmare le affermazioni del ricorrente (Khoudoyorov c. Russia, n. 6847/02, § 113, CEDU 2005-X (estratti); e Benediktov c. Russia, n. 106/02, § 34, 10 maggio 2007; Brânduşe c. Romania, n. 6586/03, § 48, 7 aprile 2009; Ananyev e altri c. Russia, sopra citata, § 123)».
Ebbene, tale principio è applicabile anche per il nostro diritto domestico visto che, anche qualora venisse formulata una domanda di accesso agli atti, è molto difficile che venga fornita una risposta in tempi rapidi; condizione temporale, invece, fondamentale nel caso in esame proprio perché, come suesposto, per proporre un’istanza di questo genere, il pregiudizio deve essere attuale.
Si potrebbe invece venire a determinare la paradossale situazione in cui, dal momento in cui viene chiesta la documentazione che acclari una condizione di sovraffollamento e il momento in cui detta documentazione sia nella disponibilità del detenuto, l’interessato non si trovi più nella condizione per poter proporre un’istanza di questo genere.
In secondo luogo, anche il secondo passo decisorio surriferito ossia quello secondo il quale tale
«onere è, infatti, coerente con la strutturazione della procedura e funzionale sia all’esplicarsi – nella cornice giuridico-fattuale disegnata dall’atto introduttivo del giudizio – dell’attività istruttoria di cui agli artt. 666, comma 5 cod. proc. pen. e 185, disp. att. cod. proc. pen.; sia all’esercizio del diritto di difesa dell’Amministrazione penitenziaria convenuta, la quale ha il diritto di conoscere con esattezza le contestazioni che sono mosse al suo operato al fine di predisporre un’adeguata linea difensiva nel rispetto di tutte le garanzie del procedimento civile in tema di assunzione delle prove e della tutela del contraddittorio»
non sembra essere del tutto conforme con quell’orientamento nomofilattico secondo cui: nel
«procedimento di sorveglianza non sussiste un onere probatorio a carico del soggetto che invochi un provvedimento giurisdizionale favorevole, ma solo un onere di allegazione, cioè il dovere di prospettare e indicare al giudice i fatti sui quali la richiesta si basa, incombendo poi all’autorità giudiziaria il compito di procedere ai relativi accertamenti»(Cass. pen., sez. I, sentenza ud. 11/11/2009 (dep. 3/12/2009), n. 46649, in CED Cass., 2009).
Quanto appena esposto
«fra l’altro si desume, per la fase esecutiva, dal disposto dell’art. 666 c.p.p., comma 5 che impone al giudice l’obbligo di provvedere d’ufficio all’acquisizione di documenti e informazioni ovvero, ove occorra, all’assunzione di prove; norma che è tenuto ad osservare anche il giudice di sorveglianza nelle materie di sua competenza (Cass., Sez. 5, 14 novembre 2000, n. 4692, Sciuto, rv. 219253)» (Cass. pen., sez. I, sentenza ud. 11/11/2009 (dep. 3/12/2009), n. 46649, in CED Cass., 2009).
In terzo luogo, quanto all’ulteriore passo argomentativo con cui sono state annoverate, tra le condizioni di inammissibilità che rilevano ai sensi dell’art. 666, co. II, c.p.p., anche quelle che attengono le condizioni di merito, se nel caso di specie tale situazione ricorre in quanto il detenuto si è limitato sic et simpliciter a chiedere il ristoro del danno subito senza allegare alcunchè, ciò deve invece escludersi se il detenuto abbia allegato elementi di prova, anche di natura presuntiva, da cui inferire la sussistenza del danno producendo, ad esempio, documentazione da cui desumere che nel carcere, ove è detenuto è ristretto, vi è una condizione di oggettivo sovraffollamento.
In questa ipotesi, l’amministrazione penitenziaria è sicuramente in condizione di poter validamente contro dedurre dimostrando che, nella cella ove il detenuto è ristretto, non vi è una condizione di sovraffollamento carcerario.
In quarto luogo, anche a volerci attenere alla possibilità di avvalerci delle regole probatorie afferenti la materia civilistica, come noto, il nostro ordinamento civilistico prevede, a date condizioni, la possibilità di ricorrere sul piano probatorio alle presunzioni.
Di conseguenza, ben può il detenuto, anche avvalendosi di notizie di dominio pubblico (esempio: producendo una relazione del garante dei detenuti in cui si evince che, nella struttura carceraria ove costui è ristretto, vi è una condizione di sovraffollamento carcerario), dimostrare da tali informazioni (fatto noto) la suddetta condizione (fatto ignorato).
In conclusione, al di là delle censure critiche illustrate in questo breve scritto, il decreto in commento rappresenta un considerevole leading case in relazione alla normativa introdotta dal decreto legge n. 92 del 2014 che può costituire un primo passo importante per interpretare correttamente tale legislazione.
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