Sul caso, si sono susseguite inchieste, commissioni parlamentari, controinchieste e ricostruzioni, ma ancora oggi, quando Ilaria, se fosse riuscita a raccontare tutte le informazioni scomode che aveva raccolto, avrebbe avuto 52 anni, nessuna verità definitiva, quantomeno nel piano giudiziario.
Un delitto compiuto all’ombra delle squadre della morte in azione in Somalia durante le guerra civile, che, invece, ha ormai messo in luce interessi e personalità ben più importanti, molto probabilmente scomodati dalla reporter Tg3 nella sua permanenza in Africa.
D’altra parte, la cronaca delle ultime ore di Ilaria e del cameraman che la accompagnava nella complicata trasferta africana, racconta di testimonianze dirette su navi cargo che, donate dai vertici della cooperazione italiana allo Stato somalo, trasporterebbero rifiuti tossici provenienti dall’Italia.
Una storia incresciosa, che renderebbe rossa di vergogna la diplomazia e anche l’esercito italiano, forse implicato nelle operazioni di smaltimento scoperte dalla giornalista Rai. Una faccenda che Ilaria Alpi ha fretta di trasformare in un servizio, per raccontare alla libera opinione del suo Paese la deriva delle missioni umanitarie dell’Italia, e, insieme obbligare le autorità a renderne conto pubblicamente. Molte teste, e anche qualche stelletta, potrebbero cadere in seguito alle rivelazioni in mano a Ilaria Alpi.
Ma quel resoconto da Mogadiscio, non andrà mai in onda. Rientrati alla capitale, la giornalista e Hrovatin vengono freddati da due colpi di kalashnikov in brevi, disumani istanti: un’esecuzione compiuta da un commando somalo, i cui reali mandati non sono mai stati identificati. I killer sanno benissimo chi colpire: autista e bodyguard rimangono illesi, nei giorni successivi, poi, videocassette, appunti, e materiale raccolto dall’inviata nelle sue inchieste, spariscono nel nulla.
Da allora, inchieste giudiziarie e parlamentari si sono occupate senza sosta della vicenda, senza, però, riuscire ad accertare le responsabilità e, soprattutto, le circostanze in cui venne deciso l’assassinio di Ilaria e Miran.
La madre di Ilaria ha riconosciuto che le indagini svolte in Italia, non hanno fatto altro che aumentare il già fitto fumo attorno alla vicenda del duplice omicidio, iscrivendo, di fatto, l’assassinio di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin alla lunga lista di misteri italiani irrisolti. Anche l’unico condannato, Hashi Omar Hassan, da oltre quindici anni in carcere per una colpa negata, a distanza di tempo, dal suo stesso accusatore, attende vanamente la revisione del processo.
A conferma della coltre di nebbia che aleggia sull’omicidio, le solite, inconcludenti Commissioni d’inchiesta parlamentari, di cui la prima, istituita nel 2004, portò a ben tre relazioni diverse sulla dinamica e il movente dell’omicidio. Molteplici le piste ritenute come plausibili: la rapina degenerata, il tentato sequestro di persona, il sempre comodo fondamentalismo islamico. Ma nessuna di queste, oggi, ha trovato ancora una dimostrazione al di sopra di ogni sospetto, tanto che le indagini si sono riaperte nel 2011. Eppure, finché non si andranno a passare uno a uno gli 8mila documenti ancora top secret, finché non verrà recuperato l’intero girato del’intervista al sultano di Bosaso, che Ilaria Alpi completò poche ore prima di morire, ogni sforzo è destinato a rimanere inutile.
Oggi, di Ilaria Alpi restano il ricordo di una professionista senza paura, alla costante ricerca della verità, che ha legato il proprio nome a uno dei fatti più cupi del rapporto tra mezzi di comunicazione e potere. Per lei e per il suo collega Miran, possiamo soltanto richiamare una frase celebre di un altro martire della verità di quegli anni difficili, Paolo Borsellino: “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”.
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