Cosa corre, allora, tra la sicurezza del premier e le esigenze di bilancio? Sostanzialmente, il destino della manovra è nella soglia in cui verrà richiesto questo contributo extra, imposto a chi percepisce una pensione.
In principio, infatti, era ventilata l’ipotesi che gli assegni sottoposti a una decurtazione straordinaria subito dopo il Jobs Act sarebbero stati quelli al di sotto dei 2mila euro lordi, dunque una frazione amplissima della popolazione dei ritirati dal lavoro in Italia, vicina al 50%.
Quindi, per evitare il divampare di ulteriori polemiche, era intervenuto direttamente il presidente del Consiglio a confermare come, al di sotto dei 3mila euro lordi, non ci sarebbe stato alcun rischio di riduzione dell’assegno mensile. Una posizione, poi, ribadita dal sottosegretario all’economia Pier Paolo Baretta e che, se confermata, andrebbe a intaccare circa mezzo milione di pensioni.
Una posizione, però, parzialmente smentita dal commissario alla spending review Carlo Cottarelli, il quale, in sede di enunciazione delle possibili coperture per il Jobs Act, ha accennato alla possibilità di intervenire sulle pensioni a partire dalla quota dei 2mila e 800 euro al mese, forse addirittura ai 2mila e 500 euro.
In quest’ultimo caso, la platea interessata sarebbe ben superiore al milione di pensionati, che vedrebbero il proprio assegno ulteriormente ridotto. Con i più ricchi, cioè coloro che percepiscono 6mila e 900 euro in su, che sarebbero chiamati a un nuovo contributo dopo l’aliquota al 6% decisa in legge di stabilità.
Insomma, la partita è tutta qui: se toccare esclusivamente le pensioni d’oro, oppure coinvolgere anche quelle “d’argento” e “di bronzo”. A seconda della soglia che verrà definita per pompare risorse fresche nelle casse pubbliche rivolte alle misure del Jobs Act, il numero dei potenziali coinvolti crescerà o diminuirà sensibilmente.
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