Il mobbing è stato definito come “ il comportamento del datore di lavoro (o del superiore gerarchico, del lavoratore a pari livello gerarchico o addirittura subordinato), il quale, con una condotta sistematica e protratta nel tempo e che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, pone in essere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro (….) e dal quale può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità” (cfr. Cass., sentenza n. 3875/09).
Ora, secondo i Giudici di legittimità, nel nostro codice penale non c’è traccia di una specifica figura incriminatrice per contrastare tale pratica persecutoria, sicché sulla base del diritto positivo la via penale non appare praticabile.
E tuttavia, la mancata previsione di una autonoma fattispecie di reato incentrata sul mobbing costituisce una palese violazione della delibera del Consiglio d’Europa del 2000 che vincolava tutti gli Stati membri a dotarsi di una norma incriminatrice ad hoc.
L’unica ipotesi in cui il mobbing può integrare una fattispecie incriminatrice, generando la responsabilità penale del suo autore, si verifica, come precisa la sentenza in parola, allorché “il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i detti soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia“.
Al di fuori di tale ipotesi, la vittima del mobbing potrà unicamente rivolgersi al giudice civile per ottenere il risarcimento del danno, patrimoniale e non (biologico, morale ed esistenziale), causatogli dal datore di lavoro che ha agito in violazione dei doveri ed obblighi su di esso incombenti a norma dell’art. 2087 del cod. civ. e posti a presidio della integrità fisica e della personalità morale del lavoratore.
Infatti, il legittimo esercizio del potere imprenditoriale “deve trovare un limite invalicabile nell’inviolabilità di tali diritti e nella imprescindibile esigenza di impedire comunque l’insorgenza o l’aggravamento di situazioni patologiche pregiudizievoli per la salute del lavoratore, assicurando allo stesso serenità e rispetto nella dinamica del rapporto lavorativo, anche di fronte a situazioni che impongano l’eventuale esercizio nei suoi confronti del potere direttivo o addirittura di quello disciplinare.”
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