Pietra miliare nella metamorfosi del diritto in materia di famiglia è stata la pronuncia n. 126/1968, con cui la Corte Costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità dei primi due commi dell’art.559 del codice penale (che sanzionavano esclusivamente l’infedeltà della moglie, lasciando impunito l’uomo fedifrago) ha precisato che “il principio che il marito possa violare impunemente l’obbligo della fedeltà coniugale, mentre la moglie debba essere punita – più o meno severamente – rimonta ai tempi remoti nei quali la donna, considerata perfino giuridicamente incapace e privata di molti diritti, si trovava in stato di soggezione alla potestà maritale.
Da allora molto è mutato nella vita sociale: la donna ha acquistato pienezza di diritti e la sua partecipazione alla vita economica e sociale della famiglia e della intera collettività è diventata molto più intensa, fino a raggiungere piena parità con l’uomo; mentre il trattamento differenziato in tema di adulterio è rimasto immutato, nonostante che in alcuni stati di avanzata civiltà sia prevalso il principio della non ingerenza del legislatore nella delicata materia”.
Il progressivo modificarsi dei costumi e della morale ha comportato, quindi, non soltanto l’esigenza di aggiornare l’insieme delle norme di diritto da un punto di vista formale, puramente redazionale, ma ha reso necessaria la reinterpretazione dei vari istituti così da adeguarli alla mutevole realtà sociale.
Nel corso del tempo, è stato dunque rivisitato anche l’obbligo di fedeltà ed, in particolare, sono mutati i comportamenti che, integrandone la violazione, determinano l’addebitabilità della separazione.
La Cassazione ha definito il dovere di fedeltà come l’obbligo che “consiste nell’impegno, ricadente su ciascun coniuge, di non tradire la fiducia reciproca ovvero di non tradire il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra i coniugi che dura quanto dura il matrimonio e non deve essere intesa soltanto come astensione da relazioni sessuali extraconiugali. La violazione dell’obbligo di fedeltà può assumere rilievo anche in assenza della prova specifica di una relazione sessuale extraconiugale intrapresa da un coniuge, essendo sufficiente l’esternazione di comportamenti tali da ledere il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra i coniugi ferendo la sensibilità e la dignità di colui o colei che subisce gli effetti di quei comportamenti. Ciò può avvenire anche dopo l’insorgere dello stato di separazione non essendo da escludere che questa lasci sussistere tra i coniugi una (magari limitata) solidarietà, tale da giustificare la permanenza dell’obbligo di fedeltà” (Cass. civ. n. 9287 del 18 settembre 1997).
Dunque, oggi la nozione di “fedeltà” è intesa in senso ampio, avendo confini più estesi rispetto alla mera dimensione dell’intimità fisica della coppia: se, da un lato, non pare ormai possibile negare l’eventualità della formazione di coppie “libere” o “aperte” – nell’ambito delle quali i coniugi non reputano l’esclusiva sessuale elemento imprescindibile della stabilità della relazione – tanto da indurre alcuni a ritenere l’obbligo di fedeltà reciproca parzialmente disponibile a mezzo di accordo tra i coniugi, dall’altro talvolta la separazione è addebitabile ad uno dei coniugi anche se lo stesso intrattenga con un terzo una relazione meramente platonica incorrendo nella c.d. “infedeltà apparente”.
Una recente pronuncia della Cassazione ha infatti statuito che: “la relazione di un coniuge con estranei rende addebitabile la separazione, ai sensi dell’art. 151 c.c., non solo quando si sostanzi in un adulterio ma anche quando, in considerazione degli aspetti esteriori con cui è coltivata e dell’ambiente in cui i coniugi vivono, dia luogo a plausibili sospetti di infedeltà e comporti offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge”, escludendo che, nel caso di specie, la condotta della moglie integrasse gli estremi dell’adulterio in quanto, anche per la distanza tra i rispettivi luoghi di residenza, il legame con il terzo si era concretizzato solo in contatti telefonici o via internet e non era “connotato da reciproco coinvolgimento sentimentale” (Cass. n.8929 del 12 aprile 2013).
Dunque è “infedele” anche il coniuge che, pur non commettendo di fatto adulterio, con il suo comportamento dia l’apparenza di una sistematica violazione del dovere di fedeltà, a patto, ovviamente, che il sospetto si fondi su elementi oggettivi e non scaturisca da pura immaginazione o patologica gelosia.
A questo punto, è doveroso, però, rimarcare l’importanza che assumono nella valutazione dell’addebito le modalità con cui è posta in essere la relazione extraconiugale: non ogni “comportamento infedele” – ampiamente inteso – del coniuge integra, infatti, l’ipotesi del tradimento, ma la violazione degli obblighi coniugali rileva soltanto se animata dalla consapevolezza e dalla volontà di ledere l’onore ed il decoro del proprio consorte, al quale, quindi, deve derivare un pregiudizio per la dignità personale oltre che un’offesa della sensibilità.
Ciò che rileva è, quindi, il comportamento adultero, ostentato senza cautela dal coniuge, che rende intollerabile la convivenza o comporta un grave pregiudizio all’educazione della prole e non già l’“adulterio” perpetrato quando tra i coniugi sia intervenuta una separazione, sia pure di fatto, ovvero in ipotesi di convivenza meramente formale essendosi, in tali ipotesi, già esaurita la comunione affettiva e spirituale che dovrebbe caratterizzare il rapporto coniugale.
In altri termini, affinché la separazione sia addebitabile è assolutamente necessario che l’infedeltà (reale o apparente, poco importa) sia causa o concausa della crisi coniugale.
Imprescindibile è, dunque, che il giudice non si limiti a valutare i comportamenti del coniuge fedifrago ma, in base ad un accertamento rigoroso e bilaterale, prenda in esame il rapporto coniugale nella sua interezza estendendo l’indagine anche alla condotta tenuta dall’altro coniuge.
Assai di recente, la Cassazione ha, in proposito, chiarito che “in tema di separazione personale tra coniugi, il giudice non può fondare la pronuncia di addebito sulla mera inosservanza dei doveri di cui all’art. 143 cod. civ., dovendo, per converso, verificare l’effettiva incidenza delle relative violazioni nel determinarsi della situazione di intollerabilità della convivenza.
In particolare, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale in tanto può giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, in quanto determini la situazione d’intollerabilità del protrarsi della convivenza coniugale ma non anche se intervenga dopo che questa situazione sia già maturata e dunque in un contesto di disgregazione della comunione materiale e spirituale” (Cass. n.27730 dell’11 dicembre 2013).
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento