WebTax: come ti calpesto il diritto UE

Non avevo voglia di scrivere sul blog un post sulla Google Tax o Web Tax. Non ne avevo voglia perché il tema non è uno che mi è facile trattare con leggerezza. Ci ho scritto una tesi di dottorato sull’intersezione tra la sovranità fiscale degli Stati con le libertà economiche comunitarie e con il diritto della concorrenza. Mi verrebbe dunque da citare giurisprudenza, scrivere tanto, troppo per un blog.

Avevo quindi deciso di lasciar perdere, e magari scrivere un articolo per qualche rivista scientifica.

Ieri, però, ho letto l’intervista dell’on. Boccia su Huffington Post e non sono riuscito a trattenermi.

Ma perdindirindina, quale arcano movente spinge certi soggetti a parlare reiteratamente e a vanvera di cose che gli sono piuttosto palesemente aliene? Errare é umano, ma perseverare é diabolico… e danneggia tutti!!

Cercherò però di evitare di tediarvi con l’eccesso di tecnicismo e citazioni giurisprudenziali e usare concetti generali, mettendo qualche link di approfondimento qua e la.

Dichiara Boccia «Se si riferisce alle sanzioni per una presunta violazione del principio sulla libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone sancito nel Trattato di Roma ricordo soltanto che all’epoca Internet non esisteva ancora».

Caro Onorevole Boccia, non esistevano nemmeno i telefoni cellulari nel ’57, non esistevano gli OGM, non esistevano tantissime cose cui oggi si applica il diritto UE.

L’on. Boccia dovrebbe sapere (o almeno dovrebbe saperlo qualcuno dei suoi assistenti), che il diritto comunitario é noto a chi lo frequenta proprio per la sua caratteristica espansiva ed evolutiva… Caratteristica che peraltro in questo caso non é neppure necessario scomodare: si tratta di semplice applicazione a una nuova fattispecie concreta di fattispecie generali e astratte contenute nelle norme del Trattato.

Oltretutto il trattato oggi in vigore é quello di Lisbona (Il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea o TFUE).. E quando é stato approvato internet esisteva, eccome se esisteva! E l’obbligo di aprire una partita IVA italiana per una società che intende prestare un servizio in Italia costituisce non solo una macroscopica violazione delle libertà economiche comunitarie (segnatamente la libertà di prestazione dei servizi e la libertà di stabilimento), ma contrasta con il principio cardine di tutto l’ordinamento europeo. Ordinamento, che, è bene ricordarlo, vive e si evolve in funzione teleologica (attraverso l’adozione di norme derivate – c.d. integrazione positiva – e attraverso le sentenze della Corte di Giustizia che rimuovono gli ostacoli – c.d. integrazione negativa) al raggiungimento di un mercato sempre più integrato, che funzioni come un unico mercato europeo. Questa è anche, ovviamente, la ratio profonda che ha ispirato la normativa IVA. Ora, alla luce di quanto ho appena molto grossolanamente sintetizzato e che dovrebbe essere patrimonio comune di chi scrive le leggi, come si può pensare che possa essere compatibile con il diritto comunitario l’istituzione – per un soggetto già registrato a fini IVA in un altro Stato Membro –  dell’obbligo  di aprire la partita IVA italiana per poter vendere a aziende Italiane?

Il problema della imposizione delle multinazionali esiste, certo, ed è grave. Ma non c’entra nulla con l’IVA e non può che trovare soluzione nello stesso campo in cui operano tali società, quello multinazionale (UE e OCSE). Il problema se lo sta ponendo la UE (giusto qualche giorno fa si è riunito per la prima volta il gruppo di esperti nominato dalla commissione UE sul tema “taxing the digital economy”, e il progetto di Base Imponibile Comune Consolidata per l’Imposta sulle società – Common Consolidated Corporate Tax Base o  CCCTB – grazie alle cooperazioni rafforzate potrebbe stavolta superare l’empasseche di solito crea il requisito dell’unanimità nell’adozione degli strumenti normativi comunitari in campo fiscale), se lo sta ponendo l’OCSE, se lo stanno ponendo gli Stati Uniti. Tra l’altro la norma è:

  • pressoché inutile sotto il profilo dell’incremento di gettito per l’Italia in ragione del meccanismo di funzionamento tecnico dell’IVA (qualcuno di quelli che hanno scritto ha fatto un po’ di confusione tra il funzionamento e le regole nell’applicazione dell’IVA nei rapporti Business to Consumer [caso cui non si applicherebbe l’emendamento ma che sarà regolato direttamente da regolamento comunitario] e quella nei rapporti Business to Business [che invece mira a colpire l’emendamento in discussione]);
  • praticamente carta straccia; raggiungerebbe l’unico effetto di far moltiplicare il contenzioso tributario: la sua contrarietà al diritto comunitario è, infatti, così palese che può essere disapplicata direttamente dai giudici tributari.

Mi sento di tranquillizzare le imprese preoccupate che di non poter acquistare (o detrarre gli acquisti) da società non dotate di partita IVA Italiana. Facciamo un esempio,  una startup Italiana decide di comprare da una PMI Olandese un tema o un plugin per wordpress per fare un sito. Se fosse mia cliente le direi di detrarre comunque l’IVA anche se la controparte Olandese non ha partita IVA italiana. Dopodiché se arrivasse un accertamento dall’Agenzia delle Entrate lo impugnerei chiedendo al giudice tributario di applicare direttamente il diritto Comunitario e disapplicare la norma interna incompatibile.Tuttavia, l’illegittimità di questa norma è tanto macroscopica che addirittura potrebbe essere disapplicata direttamente dall’agenzia delle entrate (organo amministrativo, anch’esso obbligato a disapplicare le leggi in contrasto col diritto comunitario).

Oltretutto, ad ulteriore rassicurazione delle nostre imprese tecnologiche, si tenga presente che la Commissione Europea non si è ancora fatta sentire perché non può intervenire formalmente (a meno che non sia lo Stato membro a interpellarla) finché una norma non è approvata definitivamente. Tuttavia, nella (come scriviamo noi avvocati negli atti: rubo l’espediente retorico al collega Ernesto Ruffini che ieri ha ben descritto la misuradeprecata ipotesi in cui quest’aborto normativo fosse approvato, state certi che il Guardiano dei Trattati (questo è, infatti, uno dei ruoli principali affidati alla Commissione UE dal Trattato) interverrà immediatamente con una procedura di infrazione, anche senza gli innumerevoli complaint che sono sicuro partirebbero il giorno dopo l’adozione della norma.

* * *

(update) Mentre finivo di scrivere il post ho scoperto che pare stanotte la norma sia cambiata di nuovo. Il testo dovrebbe essere questo.

La parte più palesemente nociva per il circuito delle startup e imprese innovative è stata eliminata. Ora la platea dei destinatari della norma si è ristretta davvero quasi solo a google e ai suoi servizi. I “soggetti passivi che intendano acquistare servizi di pubblicità e link sponsorizzati on line anche attraverso centri media e operatori terzi, sono obbligati ad acquistarli da soggetti titolari di una partita IVA rilasciata dall’amministrazione finanziaria italiana“. Questo rende la norma meno “dannosa” sotto il profilo economico per l’Italia (anche se un eventuale braccio di ferro tra google e l’Italia che portasse le nostre PMI a non potersi pubblicizzare con google non sarebbe certo un bene), ma non cambia le valutazioni giuridiche sopra esposte.

Innanzitutto, come spiega testualmente l’articolo 11, par. 3 del regolamento n. 282/2011/UE di esecuzione della direttiva 2006/112/UE  ai fini IVA “Il fatto di disporre di un numero di identificazione IVA non è di per sé sufficiente per ritenere che un soggetto passivo abbia una stabile organizzazione“. Dunque, anche se le autorità Italiane riuscissero a giustificare la googletax con motivazioni di lotta all’evasione e elusione fiscale (cosa improbabile, a pelle la soluzione scelta mi pare comunque eccessiva e dunque non conforme al principio comunitario di proporzionalità), probabilmente questo non porterebbe alcun vantaggio in termini di gettito.

Anche ai fini delle imposte dirette il tentativo è frettoloso a esser buoni. Dopo aver premesso (bontà loro) che  la norma non muta la definizione di “stabile organizzazione” di cui all’art. 162 TUIR, l’emendamento afferma che “ai fini della determinazione del reddito di impresa relativo alle operazioni di cui all’articolo 110, comma 7, del medesimo testo unico, le società che operano nel settore della raccolta di pubblicità on-line e dei servizi ad essa ausiliari sono tenute a utilizzare indicatori di profitto diversi da quelli applicabili ai costi sostenuti per lo svolgimento della propria attività“. Questo testo può voler dire tutto e dunque non vuol dir nulla. The devil is in the details, dicono gli Inglesi.

Ciò che emerge chiaramente è l’intenzione di variare i parametri attraverso cui si definisce il valore normale ai fini della valutazione dei prezzi di trasferimento (il c.d. transfer price). Prima di esprimersi bisogna dunque aspettare che questa deviazione venga chiarita e quantificata in un decreto o, più probabilmente, in una circolare.

Certo è che se l’amministrazione Fiscale Italiana cercasse di discostarsi unilateralmente daicriteri concordati a livello OCSE – criteri attraverso i quali sono applicate e interpretate le norme dei Trattati contro la doppia imposizione stipulati dall’Italia con circa 90 paesi (tra cui USA e l’IRLANDA) – si acuirebbero i non pochi problemi di affidabilità dell’Italia, in un settore nel quale già i frequenti chiari di luna della giurisprudenza tributaria l’hanno condannata all’etichetta di giurisdizione inaffidabile per gli investitori internazionali.

Oltretutto, anche in questo caso, l’applicazione unilaterale da un solo Stato membro UE di regole diverse per un solo settore (anzi, in realtà per una sola impresa) rischierebbero – anche sotto questo profilo – il giudizio di incompatibilità comunitaria.

Giovanni Mameli
www.iavvocato.eu
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@iavvocato

Giovanni Mameli

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