Vale la pena di iniziare in un modo almeno un po’ insolito: ogni tanto fa piacere essere smentiti. Non più tardi di una manciata di giorni fa avevo immaginato che dalla Corte costituzionale potesse arrivare un nulla-di-fatto, che poi permettesse alla politica di tenersi ancora una volta il Porcellum che aveva scampato l’ennesimo agguato. Oggi invece, a giudicare dal comunicato diffuso dalla Consulta, ho commesso un errore e ne chiedo felicemente scusa. La notizia che la legge Calderoli sia stata bocciata in alcune delle sue parti è – almeno sul piano generale, anzi generalissimo – condivisibile, viste le critiche che negli anni i più diversi studiosi di diritto pubblico e costituzionale hanno formulato sulla vigente legge elettorale.
I problemi, però, si incontrano già solo a volere fare un passo al di fuori di quella nota molto breve, volendo cercare di capire esattamente cosa accadrà “dopo”. La prima cosa da fare, in realtà, è chiara a tutti i giuristi: è assolutamente necessario aspettare il testo integrale della sentenza. “Anche le virgole contano” ha scritto Stefano Ceccanti appena si è diffusa la notizia e ha perfettamente ragione. Quanto bisognerà attendere? Il comunicato dice che “la pubblicazione della sentenza […] avrà luogo nelle prossime settimane”. Tradotto in pratica, è probabile che si arrivi all’anno nuovo, magari al tempo che fino a martedì sera si immaginava per la decisione in camera di consiglio, ossia la metà di gennaio. Peseranno le virgole, peseranno le parole usate e quelle non presenti: facile credere che ognuno dei giudici partecipanti voglia intervenire, dando un contributo piccolo o grande, soprattutto nell’operazione di limatura del testo, operazione che appare già laboriosissima.
Nell’attesa, qualche considerazione sul contenuto ad ora noto della decisione va fatta. Riesce abbastanza semplice valutare la parte legata al premio di maggioranza: dal 2008 – e, con maggior incisività e frequenza, negli ultimi due anni – la Corte ha ricordato che l’assenza di una soglia per far scattare il premio dava luogo a sospetti di incostituzionalità. Un difetto messo in luce da vari studiosi, su cui si può sostanzialmente concordare. Il fatto è che quelle soglie la Corte non potrebbe proprio aggiungerle: non esiste alcuna legge elettorale, nel nostro sistema, che le preveda e dunque non è minimamente pensabile che la Consulta l’abbia “inventata” dal nulla, poiché sarebbe una violazione palese del ruolo che la Costituzione le attribuisce.
Dunque, se il premio così com’è è incostituzionale e il giudice delle leggi non può “aggiustarlo” aggiungendo le soglie di cui avverte la mancanza, resta solo la possibilità di eliminarlo tout court. A leggere il comunicato, sembra proprio che questa sia la soluzione adottata dai giudici costituzionali. Resta, al momento, il – grave – problema legato alla convalida dei parlamentari eletti proprio grazie al premio, tanto alla Camera (e sarebbero tutti del centrosinistra, compresi alcuni di Sel ora all’opposizione) quanto al Senato (in entrambi gli schieramenti); per capire qualcosa in più, però, qui è necessario aspettare la sentenza integrale perché certamente questo problema sarà stato affrontato in camera di consiglio ed è probabile che se ne trovi traccia nelle motivazioni (se non nel dispositivo della pronuncia, magari con un limite pro futuro all’efficacia della sentenza: una soluzione che la dottrina non apprezzerebbe, ma che “salverebbe” la legislatura).
La questione è molto più delicata sul secondo punto, quello legato alle “liste bloccate”. In base alla nota diffusa, le norme sono state dichiarate illegittime “nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza”. Come è noto, una frase simile è quella tipica delle cosiddette “sentenze additive”, che aggiungono dunque una norma che permette di riportare la disposizione censurata nei binari della costituzionalità e che però il giudice a quo è tenuto a indicare, a pena di inammissibilità della questione.
Ora, certamente il “verso” nel dispositivo dell’ordinanza della Cassazione non c’è; a guardare con attenzione, non c’è nemmeno nella parte delle motivazioni, che non chiedono espressamente l’introduzione della preferenza. In effetti l’inizio di quel passaggio delle motivazioni cita “l’abolizione delle preferenze”, ma l’espressione sembra usata in senso atecnico, anche perché la stessa legge n. 270/2005, intervenendo sul Mattarellum, non avrebbe potuto in alcun modo eliminare l’espressione di preferenze perché quel sistema elettorale già non la prevedeva più, nemmeno nella parte proporzionale del 25% della Camera: la lista infatti era già “bloccata”.
Anche sulla scorta di queste considerazioni, la riflessione su questa parte di sentenza si fa delicatissima. A leggere schiettamente il comunicato stampa, si dovrebbe dedurre che a essere incostituzionale è la lista “bloccata” in sé,con la conseguente necessità di introdurre le preferenze. Ma allora, ragionando in questo modo, qualunque tipo di lista “bloccata” violerebbe la Costituzione: anche, per dire, quella del Mattarellum, che però nessuno si era sognato di contestare perché comprendeva solo 4 nomi al massimo. Nell’ordinanza della Cassazione, però, non c’è alcun riferimento alla “lunghezza” delle liste (o, correlativamente, alla “grandezza” dei collegi), che certamente nel caso del Porcellum crea un grande problema: è dunque assolutamente necessario aspettare le motivazioni per capirne di più.
Leggere la sentenza intera, poi, permetterà anche di capire l’effettiva portata della pronuncia “additiva”. Tra le norme impugnate, ad esempio, manca l’articolo 31 del d.lgs. n. 361/1957, che rimanda alle tabelle che contengono il fac simile delle schede elettorali della Camera. È del tutto evidente che le schede attualmente in uso, sulle quali sono stampati solo i contrassegni delle liste senza spazi per la scrittura, non consentono minimamente l’indicazione della preferenza (anzi, immaginare le preferenze a schede invariate porterebbe a dibattiti infiniti sulla nullità di determinati voti). Così com’è, dunque, la legge non sarebbe operativa. È allora più facile pensare che la sentenza, nella parte sulle preferenze, sia da considerarsi “additiva di principio”: la Corte, in sostanza, dice con chiarezza che occorre introdurre la preferenza, ma spetta al legislatore intervenire perché quel meccanismo sia effettivamente utilizzabile.
Ora, se desta naturalmente interesse già la semplice ammissibilità della questione di legittimità costituzionale – era tutto meno che scontato che la Corte si ritenesse titolata a intervenire, quando avrebbe potuto qualificare la fattispecie come political question su cui non le è lecito esprimersi, essendo un’area di esclusiva competenza del Parlamento – è ancora più stimolante riflettere sul risultato.
Chi nei giorni scorsi aveva immaginato una possibile dichiarazione di illegittimità costituzionale che colpisse per intero il Porcellum, configurando magari un’ipotesi di reviviscenza dei Mattarellum precedentemente in vigore è stato smentito. La Corte, in sostanza, ha scelto di dare al Parlamento un compito “limitato”, consegnandogli una legge elettorale che richiede sì degli interventi (lo si è detto poco fa), ma è comunque in grado di funzionare anche senza le liste bloccate e il premio di maggioranza.
Di fatto, il sistema disegnato dalla decisione di oggi è un sistema proporzionale quasi puro, molto simile per quanto riguarda la Camera a quello con cui si è votato nel 1992 (unico anno della preferenza unica, dopo il referendum di Segni), ma con l’introduzione – rispetto ad allora – degli sbarramenti. La differenziazione delle soglie tra liste singole e coalizioni, tra l’altro, sarebbe l’unica ragione per mantenere la possibilità di apparentarsi: in altre parole, unirsi in coalizione non servirebbe più per ottenere il premio di maggioranza, ma continuerebbe a essere utile per i partiti più piccoli, che vedrebbero dimezzata la quota da raggiungere e magari potrebbero partecipare comunque al riparto dei seggi come “migliori perdenti”.
Ogni considerazione sulla delegittimazione della classe politica indicata da questa legge in questa legislatura (e nelle due precedenti…) è lasciata a ciascun lettore e osservatore; sarà comunque questa stessa classe politico-parlamentare a dover necessariamente intervenire sula legge elettorale. Accogliendo le indicazioni della Corte sulle preferenze (e, magari, introducendo di nuovo il premio di maggioranza ma con una soglia determinata) o predisponendo una legge nuova. In ciascuna delle due ipotesi, ovviamente, occorrerebbe un accordo che non sembra minimamente all’orizzonte: i partiti però avrebbero tempo varie settimane, feste di Natale comprese, per trovare seri punti di contatto.
Ecco allora che la Corte, pur mostrando un “tradizionale conservatorismo istituzionale” (lo ha dichiarato a chi scrive l’on. Gianfranco Rotondi dopo la notizia della sentenza), avrebbe scelto di puntare (sia pure garbatamente e in guanti di velluto) una pistola alla tempia degli eletti alle Camere, dando loro l’onere di dettare nuove regole per le elezioni, visto che quelle che hanno portato loro in Parlamento erano da buttare. In pratica, si chiede al malato di curarsi per poi eliminarsi: sui risultati finali, è difficile fare previsioni.
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