Quando Roberto Giachetti, vicepresidente della Camera, il 7 ottobre ha iniziato (come a luglio dell’anno scorso) lo sciopero della fame per ottenere dalla politica la rimozione definitiva dell’attuale legge elettorale, lo ha fatto con questa consapevolezza. Nel 2012 furono in molti a seguirlo, ma poi si votò con la stessa legge e gli effetti sono noti a tutti.
Anche stavolta Giachetti non è solo: è stato la prima voce di un coro che si è allargato. Centinaia di persone hanno scelto di condividere, almeno per un giorno, la sua battaglia: una settimana fa si erano sommate mille giornate di digiuno. Ieri oltre 250 persone hanno “scioperato”, ciascuna ha fatto crescere il coro senza omologarsi: ha portato nel rifiuto del cibo un pezzo del suo mondo, del suo pensiero. Ha unito la propria tessera a un mosaico enorme, che nel dire «Mai più Porcellum» ha il volto dei tanti che hanno alzato la voce.
Anche chi scrive, per due giorni, ha digiunato con loro. Ho portato la mia testimonianza di costituzionalista. Di chi studia le regole di un gioco grande come un Paese, di una partita che si vive da spettatore che contribuisce a scegliere le squadre in campo (senza poterle allenare) e prova sulla sua pelle gli effetti di quella partita, senza averli decisi direttamente. Il motivo per cui un costituzionalista digiuna sta – per dirla con Filippo Ceccarelli – nello stomaco della Repubblica. La democrazia è fatta di voti, del consenso di ogni persona; la democrazia si nutre di voti, come noi di cibo. Se però il cibo è cucinato male, il sapore non è buono o ci si possono lasciare le penne. Per la democrazia è la stessa cosa: una legge elettorale sbagliata può “cucinare” così male i voti da trasformarli in veleno. La cucina del ristorante Porcellum, inaugurato nel 2005 al numero 270, è un posto malsano, che scodella pessimi piatti: chi studia le regole del gioco lo sa.
Sa che il voto non è davvero libero, perché le “liste bloccate” riempiono le Camere di “nominati” e non di eletti, con il povero votante che può solo scegliere in blocco una lista lunga così, con le posizioni stabilite dai partiti (e con le candidature in più circoscrizioni che impediscono ancora di più ai cittadini di sapere prima chi potrebbe entrare in Parlamento e chi resterebbe fuori). Sa che il premio di maggioranza può consegnare la maggioranza assoluta dei seggi a una coalizione che magari non ha nemmeno il 30%. Sa, tra l’altro, che i cittadini della Valle d’Aosta sono trattati da elettori di serie B, perché alla Camera i loro voti non contano per raggiungere il premio di maggioranza.
Molti cittadini, però, hanno capito come stanno le cose: a febbraio uno su quattro non ha votato, per non intossicare la democrazia e non finire avvelenato. Ma un costituzionalista sa che, finché rimane questa legge elettorale, la democrazia mangerà veleno: i cibi sono buoni, ma la cucina e il ristorante (che persino il primo titolare, Calderoli, ha abbandonato) sono disastrosi. Dovevano essere chiusi da anni e sono ancora qui. La democrazia non può più permettersi di mangiare pietanze avariate: meglio che digiuni. E se chi studia le regole del gioco può farlo capire rifiutando il cibo, ben venga.
Le speranze di molti (non proprio autentiche, in qualche caso), alla vigilia dell’udienza pubblica si appuntano sulla Corte costituzionale, per il suo ruolo di “giudice delle leggi”. Giusto, per carità, a patto di non chiederle quello che non può e non deve fare.
Punto primo: vietato accusare i giudici costituzionali di avere dormito per sette anni. Chi lo fa parla senza conoscere le regole (sport diffuso in Italia). A queste persone va ricordato che la Corte non può intervenire di sua iniziativa, neanche se l’incostituzionalità è grande come una casa: le leggi le fa il Parlamento e se la Corte costituzionale (competente, ma non eletta dai cittadini) potesse smontarle liberamente, salterebbe il sistema. La Consulta, dunque, può intervenire solo quando – per quanto interessa – in un processo emerga un dubbio sulla costituzionalità di una norma e il dubbio non permetta di esaminare la causa se non è risolto. Solo allora il giudice può interpellare la Corte costituzionale, magari per sentirsi dire che ha preso un abbaglio.
Già così è chiaro che è maledettamente difficile che la Corte si occupi della legittimità della disciplina elettorale. Potrebbe sollevare il dubbio una delle Camere durante la verifica dei poteri, ma è come se i parlamentari scrivessero il loro atto di sfratto. Tutti i tentativi precedenti di interessare “dal basso” la Consulta delle norme per trasformare i voti in seggi erano falliti, per questo l’udienza di domani è una notizia positiva. Chi volesse stappare una bottiglia o anche solo metterla al fresco, però, farebbe un azzardo.
Il secondo punto, infatti, riguarda la decisione della Corte. Rimasero delusi i cittadini che avevano firmato le richieste di referendum (idea di Pierluigi Castagnetti, tradotta nei quesiti Morrone-Parisi-Palumbo, al cui studio preparatorio partecipai non senza dubbi), quando la Consulta le bocciò all’inizio del 2012. Chi aveva proposto i referendum voleva riattivare il Mattarellum, ma la Corte disse che – per come erano scritti – i quesiti avrebbero solo cancellato il Porcellum, senza far rivivere la vecchia legge. Si può discutere l’esito, ma per i giudici costituzionali non si può demolire una norma “costituzionalmente necessaria”, se le norme che restano non funzionano da sole. Per una legge elettorale, si deve poter votare subito con la normativa di risulta: se il meccanismo si inceppa, la Corte non può togliere la norma (anche se è incostituzionale), ma invita il Parlamento ad agire. Come nel 2012 con le sentenze sui referendum e quest’anno.
Il terzo punto è: cosa la Corte deciderà in concreto? Difficile pensare a una bocciatura totale del Porcellum (che nell’ordinanza non è richiesta) per la ragione già vista. È meno improbabile un intervento sul premio di maggioranza, che la Consulta ha criticato più volte, ma anche qui non è certo: il problema non è il premio in sé ma l’assenza di una soglia per farlo scattare. È difficile che la Corte si “inventi” una soglia che nel nostro ordinamento non c’è (la funzione “creativa” spetta al Parlamento), ma potrebbe eliminare le norme sul premio di maggioranza. Il nuovo sistema sarebbe un proporzionale (simile a quello in uso prima del 1993) ma con sbarramento: un sistema più equo, forse, senza però garanzia di governabilità. In più, essendo in corso la convalida dei parlamentari, la Corte dovrebbe trovare il modo per limitare l’efficacia della sua sentenza al futuro, per evitare che tutti i parlamentari eletti col premio di maggioranza perdano il seggio (ma la dottrina in passato ha ampiamente criticato le pronunce con limiti ai loro effetti).
Quanto alle “liste bloccate”, non si capisce come la Consulta potrebbe intervenire: è difficile pensare che le bocci per intero (con cosa sarebbero sostituite?), ancora meno che possa reintrodurre il voto di preferenza (è una scelta politica, che spetta al Parlamento).
Morale: sono pessimista sul fatto che la Corte costituzionale, dal 3 dicembre in poi, possa fare qualcosa di incisivo: del resto, negli ultimi casi in cui il collegio si è dovuto occupare della legge elettorale, ha sempre cercato il modo più elegante di sbarazzarsi delle questioni, limitandosi a lanciare moniti che il Parlamento ha sempre lasciato cadere. La cosa che rattrista di più, però, è che gran parte dei partiti e dei politici presenti alle Camere abbiano potuto pensare che sarebbe bastato non decidere sul Porcellum, nella speranza che la Corte togliesse loro le castagne dal fuoco. E se la Consulta alla fine non farà nulla, limitandosi ai moniti già letti, qualcuno sarà pronto a dire che, se i giudici costituzionali non sono intervenuti, in fondo la porcata non era così grossa e la si può lasciare com’è. Uno scaricabarile inaccettabile che somiglia a un gioco al massacro, in cui a essere massacrata è la democrazia e non chi in fondo ha interesse a continuare a nominare ed essere nominati. Per questo Giachetti e tanti altri continuano a digiunare.
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