Il datore di lavoro che concede lo smart working al dipendente con disabilità risponde all’obbligo di legge di assicurare un accomodamento ragionevole scongiurando così una disparità di trattamento rispetto ai colleghi.
Ad affermarlo la Corte di Cassazione con la sentenza del 10 gennaio 2025 numero 605, grazie alla quale gli Ermellini si sono pronunciati sul caso di un dipendente che, invalido civile a causa di gravi deficit visivi, si era visto riconoscere dal giudice di secondo grado la violazione del Decreto legislativo numero 216/2003 in relazione alla mancata adozione da parte dell’azienda di accomodamenti ragionevoli, previsti in funzione anti-discriminatoria a beneficio dei lavoratori colpiti da disabilità.
In particolare si è avallato l’utilizzo dello smart working come accomodamento ragionevole se in grado di rendere concretamente compatibile l’ambiente lavorativo con le limitazioni funzionali del lavoratore, in assenza di una situazione di impossibilità, per il datore di lavoro, di realizzare le modifiche necessarie, senza che queste comportino oneri finanziari sproporzionati.
Operando in questo modo, conclude la Cassazione, si contempera l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa.
Analizziamo la questione in dettaglio.
Indice
La controversia sullo smart working disabili
La controversia all’esame della Cassazione trae origine dalla pronuncia della Corte d’Appello di Napoli che, in riforma della sentenza di rigetto emessa in primo grado dal Tribunale di Nola, in accoglimento della domanda del dipendente, assunto come addetto all’assistenza tecnica di primo livello alla clientela business, ordinava al datore di lavoro di assegnare l’interessato alla sede di Pomigliano d’Arco (in cui quest’ultimo aveva la residenza) per assicurare da remoto o in regime di lavoro agile, le stesse mansioni svolte presso la sede di assegnazione.
In particolare, la Corte di merito considerati i gravi deficit visivi del dipendente (invalido civile) ha riscontrato violazione dell’articolo 3, comma 3-bis, Decreto legislativo 9 luglio 2003, numero 216 in relazione alla mancata adozione da parte della società datrice di lavoro di accomodamenti ragionevoli, prescritti dalla norma in funzione anti-discriminatoria con riguardo ai lavoratori con disabilità.
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Cosa prevede il Decreto legislativo numero 216/2003
Il Decreto legislativo numero 216/2003, invocato dalla Corte d’Appello di Napoli, dispone all’articolo 3, comma 3-bis l’obbligo, per i datori di lavoro pubblici e privati, di adottare accomodamenti ragionevoli, al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità e la piena eguaglianza di questi ultimi con gli altri dipendenti.
Obbligo di adottare un accomodamento ragionevole
Valutate le prove, la Corte d’Appello ha osservato che:
- nella sede di Pomigliano d’Arco erano effettivamente adibiti solo tecnici;
- le condizioni di salute del lavoratore ne rendevano difficile l’accesso alla sede di lavoro di Napoli (cui era assegnato);
- lo svolgimento della prestazione in regime di smart working erano regolato in azienda da un accordo interno che, tuttavia, escludeva i caring agents (come il ricorrente).
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Tuttavia, sempre secondo il giudice di secondo grado, in base all’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli (ai sensi del Decreto legislativo numero 216/2003) per evitare disparità di trattamento del lavoratore con disabilità “andava verificata in concreto la possibilità di espletare la prestazione con modalità di lavoro agile” con “oneri finanziari per la società, quali la fornitura di idonea strumentazione e la formazione” giudicati non eccessivi e dunque “non irragionevoli” (sentenza).
In conclusione, secondo la Corte d’Appello, tenuto conto che lo svolgimento dell’attività in smart working era stato realizzato nel corso dell’emergenza COVID-19, tale modalità poteva essere seguita come accomodamento ragionevole in accoglimento della richiesta del dipendente.
Il ricorso dell’azienda
Contro la sentenza di secondo grado l’azienda propone ricorso per Cassazione fondato, tra le altre cose, sulla violazione e falsa applicazione degli articoli 18 e 19 della normativa in materia di lavoro a distanza. Nello specifico, il datore di lavoro sostiene che la Corte d’Appello ha erroneamente assegnato il dipendente alla sede di lavoro più vicina alla sua abitazione senza consentire all’azienda stessa di concordare con l’interessato l’accesso al lavoro agile e le relative modalità di esercizio, né tantomeno di esercitare il diritto di recesso dallo smart working, imponendo l’adibizione a quest’ultimo a tempo indeterminato, in assenza di accordo tra le parti.
Le norme in materia di lavoro agile richiedono infatti la sottoscrizione di un accordo individuale tra azienda e dipendente e prevedono la facoltà di recesso di entrambe le parti in caso di accordi a tempo indeterminato.
La Cassazione fa il punto
Investita della questione la Suprema Corte ha giudicato i ricorsi dell’azienda come infondati.
Smart working anche senza l’accordo delle parti
Nello specifico la Cassazione afferma che gli accomodamenti ragionevoli ben possono realizzarsi in sede negoziale (tra azienda e dipendente) ma, in mancanza di accordo tra le parti, la soluzione del caso concreto è individuata dal giudice di merito.
La facoltà della persona con disabilità di richiedere l’adozione di un accomodamento ragionevole, con conseguente diritto di partecipare alla sua individuazione, riflette secondo la Corte di Cassazione il carattere vincolante dell’obbligo di accomodamenti ragionevoli, il cui rifiuto costituisce la discriminazione vietata.
La violazione dell’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli, sancito dall’articolo 3, comma 3-bis, Decreto legislativo numero 216/2003 si traduce, secondo la Suprema Corte, nella “violazione di doveri imposti per rimuovere gli ostacoli che impediscono ad una persona con disabilità di lavorare in condizioni di parità” con i colleghi, realizzando “così una discriminazione diretta”.
Bilanciamento dell’interesse di lavoratore-azienda
Stando al pensiero della Cassazione l’adozione dello smart working come accomodamento ragionevole è possibile se, da un lato, si rende concretamente compatibile l’ambiente lavorativo con le limitazioni funzionali del lavoratore disabile e, dall’altro lato, il datore di lavoro non si trova nell’impossibilità di adottare i suddetti accomodamenti, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto e, in particolare, all’assenza di oneri finanziari sproporzionati.
Operando in questo modo si contempera, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello dell’azienda a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa.
Tale decisione punta sull’obbligo delle aziende di considerare seriamente le richieste di accomodamento ragionevole, punendo le mancate adozioni di tali misure come comportamenti discriminatori.
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Foto copertina: istock/ia_64