Un divorzio nei fatti già avvenuto, poiché sabato scorso, in Campidoglio, tra i 27 leader e capi di Stato era impossibile notare l’assenza, dovuta ma assai ingombrante, del Regno Unito. Anche per questo motivo, il valore della dichiarazione sottoscritta nell’anniversario romano da tutti i presidenti potrebbe realmente comprendersi solo nei prossimi 50 giorni. Se il progetto europeo resterà in piedi, verrebbe archiviata come l’atto di rinascita dopo un periodo buio; se, invece, continuerà la disgregazione dell’Unione europea, allora la firma mancante della prima ministra Theresa May avrebbe un peso infinitamente superiore di tutte quelle sottoscritte a favore di telecamere e macchine fotografiche. E già il fatto che il documento sia stato firmato nella sala denominata “Orazi e Curiazi” potrebbe rappresentare un segnale non troppo confortante.
Perché 50 giorni? La ragione è presto detta: il prossimo 7 maggio si svolgerà in Francia il ballottaggio per le elezioni presidenziali, che decreteranno il successore di François Hollande. In base ai sondaggi, a giocarsi la corsa a due dopo il primo turno del 23 aprile saranno la candidata dell’estrema destra Marine Le Pen ed Emmanuel Macron, leader del movimento politico moderato ed europeista “En Marche!”. Qualora a spuntarla dovesse essere la candidata del Front National, allora significherebbe portare all’Eliseo, alla guida di uno dei Paesi fondatori, la paladina degli euroscettici, alfiere del populismo che si attualizza nel trumpismo, sulla scia vincente delle elezioni americane 2016. All’opposto, dovesse prevalere Macron il progetto dell’Unione europea riprenderebbe vigore, e la Brexit stessa potrebbe concludersi come una defezione non troppo dolorosa.
Cosa accadrà con la Brexit
Dopo alcuni ritardi nell’iter burocratico – prima di avviare i negoziati con Bruxelles si è resa necessaria la ratifica del voto referendario da parte del Parlamento inglese – la premier Theresa May ha dunque posto la propria firma non già sulla Dichiarazione di Roma, ma sulla lettera che avvia il processo di uscita del Regno Unito dalla Ue.
La missiva, consegnata dall’ambasciata britannica al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, attiverà la clausola inserita nell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, secondo cui “Ogni Stato membro può decidere di ritirarsi dalla Ue in conformità alle proprie norme costituzionali. Lo Stato membro che decide di farlo deve informare il Consiglio europeo e negoziare un accordo sul ritiro…”
E così, per due anni Unione europea e Regno Unito discuteranno i termini dell’abbandono: mobilità delle persone, immigrazione, lavoro, capitali, politiche di difesa, accordi in essere e via discorrendo. Un lavoro immane, che potrebbe avere strascichi ben al di là della scadenza già fissata al 29 marzo 2019, data in cui ufficialmente il Regno Unito non farà più parte del sodalizio continentale.
La prima ministra è consapevole della missione molto delicata che si accinge a svolgere, con l’opinione pubblica interna spaccata a metà – nei giorni scorsi varie manifestazioni pro Europa si sono svolte nelle principali città – e la promessa di voler tutelare tutti i cittadini, specialmente coloro che si sentono schiacciati dall’economia globale e hanno scelto di abbandonare il progetto di Maastricht.
Tutto questo, mentre in Scozia – area da sempre ostile all’uscita – tornano a spirare forti venti di indipendentismo: il Parlamento di Edimburgo ha infatti votato a favore di un nuovo referendum per sancire l’indipendenza da Sua Maestà.
Leggi tutto su: Dichiarazione dei leader dei 27 Stati membri e del Consiglio europeo, del Parlamento europeo e della Commissione europea
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