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Il caso
Risale a pochi giorni fa la decisione da parte di Jacques Raynaud, vicepresidente esecutivo di Sport Channels e Sky Media, di sospendere Paolo Di Canio dalla conduzione del programma “Di Canio Premier Show” su Sky Sport. L’episodio che ha dato origine alla decisione risale ad una diretta Facebook nella quale, l’ex calciatore, è apparso in maniche corte lasciando scoperto il tatuaggio fascista con la scritta “Dux” sul braccio destro.
Le immagini della videochat, andata in onda dagli studi televisivi e attraverso i canali social di Sky Sport, si sono subito diffuse sul web, accendendo numerosi dibattiti e provocando feroci reazioni, sia degli abbonati Sky, che delle comunità ebraiche. Prendendo atto dell’indiscutibile leggerezza commessa nella messa in onda del video, il vicepresidente Jacques Raynaud si è scusato per la vicenda ed ha annunciato la decisione di sospendere la collaborazione lavorativa con l’ex calciatore.
Le informazioni sui social network possono essere utilizzate nei rapporti di lavoro?
Il recente episodio che ha come protagonista Paolo Di Canio ripropone la discussione sull’utilizzabilità o meno delle informazioni personali presenti sul web per la regolazione dei rapporti lavorativi. In un contesto nel quale l’utilizzo dei social network è diventato un mezzo di affermazione della propria identità o di rafforzamento della percezione che, della stessa, hanno gli altri utenti, diviene maggiormente necessario comprendere i limiti entro i quali i datori di lavoro possono spingersi.
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L’episodio del lavoratore licenziato perché offriva prestazioni sessuali sul web
Emblematica, a tal proposito, è stata la sentenza della Cass. Civ. (sez. I, ottobre 2014, n. 21107) che si è espressa sul licenziamento di un lavoratore che aveva offerto le proprie prestazioni sessuali su un sito web specializzato. La Cassazione ha giudicato come inutilizzabili i dati presenti in rete per giustificare il licenziamento, seppur questi siano stati pubblicati volontariamente dal lavoratore.
L’inserimento di informazioni personali sul web per specifiche finalità non può far presumere l’intenzione di renderle utilizzabili per qualsiasi altro scopo. Ciò che può essere dedotto dalla sentenza è che la pubblicazione su un sito web o su un social network di informazioni, foto, video che possono avere contenuto personale o che possono far desumere convinzioni religiose, idee politiche, attitudini sessuali e opinioni, non può far ritenere che, implicitamente, il consenso sia stato reso per qualsiasi altro utilizzo.
La pronuncia, anche se riferita ad un caso molto differente rispetto a quello “Di Canio”, risulta di rilevante importanza perché sancisce il principio della prevalenza della tutela dei dati sensibili anche nei rapporti di lavoro, ponendo un limite invalicabile all’utilizzabilità dei dati reperiti in rete.
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