Il Professore nel predetto articolo prende ad esempio un caso da lui vissuto in prima persona in cui le parti inizialmente si erano accordate amichevolmente sui termini essenziali dell’operazione fissando la data in cui firmare il contratto. La conclusione di quest’ultimo sarebbe dovuta essere solo una formalità ma il contraente più forte, ovvero la società acquirente, si presentò alla stipula con un team di avvocati che iniziò a rinegoziare l’affare spiazzando di fatto la controparte.
Alla luce di tale esempio, appare quindi importante, al fine di condurre una buona negoziazione non solo strappare le condizioni economiche per sé più vantaggiose ma anche fissare le regole del processo della trattativa.
Tale fenomeno può essere affine a quello che è stato definito da alcuni studiosi italiani (Romano, Palermo) come procedimentalizzazione del contratto.
Nel mercato attuale sta diventando esigenza sempre più pregnante delle parti fissare le regole a cui dovranno attenersi durante la trattativa. Queste ultime si concretizzano in sostanza nell’adozione di una serie di atti scritti, facenti parte di un processo il cui risultato finale è costituito dalla conclusione del contratto o seguendo la terminologia del Common Law del c.d. closing.
A tal proposito alcuni studi (F. Di Giovanni) parlano di accordi sulla documentazione, ovvero patti mediante i quali le parti si obbligano reciprocamente a fornirsi determinati documenti. Questi ultimi non costituirebbero requisito di validità del contratto come invece accade per il patto sulla forma ai sensi dell’art. 1352 c.c..
Ciò che tali patti tutelano, invece, è l’interesse al documento e solo incidentalmente la documentazione potrebbe essere utilizzata anche ai fini probatori.
Tale impostazione consente di inquadrare meglio una serie di istituti di origine anglosassone diffusisi in particolare nelle contrattazioni internazionali: esempi sono la c.d. due diligence, il controllo contabile che le parti effettuano reciprocamente sui rispettivi libri contabili (ormai mediante archivi digitali), o la sequenza contrattuale agreement-closing.
In realtà l’esigenza di procedimentalizzare si giustifica maggiormente in un sistema come quello di Common Law in cui non vige il principio di buona fede.
In tali ordinamenti il principio della contrattazione è: “ti fornisco tutte le informazioni che mi chiedi ma non ti assicuro che tutto ciò che mi chiedi sia tutto quello che c’è da sapere”.
Forse il fissare le regole della trattativa oggigiorno non è un’esigenza soltanto dei paesi di Common Law ma più in generale di tutti i paesi fondati sui principi dell’economia liberale, tant’è vero che va segnalata una prassi documentale simile nel nostro ordinamento.
Una ragione della diffusione di tale fenomeno nel nostro ordinamento può ricondursi al fatto che vi sono parti sempre più sofisticate le quali, per ragioni di certezza, provano a sganciarsi dal generico obbligo di buona fede nella trattativa rendendo documentale/contrattuale ciò che tradizionalmente era sempre stato ricondotto all’area della buona fede. In sostanza le parti seguono il principio romano verba volant, scripta manent. Un esempio a dimostrazione di quanto si sta qui affermando può essere forse rintracciato nel c.d. preliminare di preliminare riconosciuto dalle Sezioni Unite con sentenza del 6 Marzo 2015 n° 4628 (per ulteriori approfondimenti si consiglia: Preliminare di preliminare: spunti di riflessione sulla trattativa).
I contraenti si servono, quindi, di una serie di documenti scritti, che fanno parte della trattativa e che vengono assorbiti o eliminati dal contratto finale. La funzione di tali documenti è fornire certezza ai rapporti precontrattuali: funzione che soprattutto nelle trattative di grande valore economico (in particolare quelle in materia societaria) è molto sentita dalle parti.
Tale prassi appare più che conforme ad un sistema di diritto positivo come il nostro: al contrario, essere vincolati solo dal principio di buona fede può significare per i contraenti sottoporsi ad interventi potenzialmente distorsivi da parte del giudice.
A chi affidare nel nostro ordinamento la definizione delle regole della trattativa di cui parla il Professor Malhotra?
In primo luogo, in assenza di una prassi ben definita (sia italiana che straniera), si può immaginare che il “processo contrattuale” sia regolamentato da un soggetto terzo ed imparziale che assista i contraenti nell’individuazione della regole della trattativa: un simile ruolo in Italia potrebbe essere svolto dal notaio, ad esempio, più che da un arbitro. Il primo, infatti, è normalmente coinvolto nella fase genetica dell’atto, a differenza del secondo a cui compete la fase patologica.
In secondo luogo, una volta fissate le regole della trattativa, la vera e propria negoziazione potrebbe o svolgersi contestualmente davanti al notaio, il quale però dovrà sì indagare la vera volontà delle parti ai sensi dell’art. 47 l.n., ma non potrà interferire sulla definizione del contenuto sostanziale degli accordi raggiunti dalle parti.
Oppure, diversamente, la negoziazione potrebbe essere condotta, come normalmente accade nella prassi, dai legali delle parti, anche perché non vigendo nel diritto italiano un principio di equità tra le prestazioni contrattuali è chiaro che la definizione del contenuto contrattuale debba essere lasciata alla libertà dei privati, non potendo il notaio intervenire sull’accordo né tantomeno sull’equilibrio delle prestazioni.
Per concludere, la procedimentalizzazione del contratto riconosciuto dagli studiosi italiani e la cui rilevanza nelle moderne contrattazioni è stata messa in risalto anche dagli studiosi di Harvard, potrebbe definire un nuovo ruolo del notaio come garante e coordinatore super partes fin dalla fase della trattativa. Un soggetto che assisterebbe le parti nella redazione di tutti quei documenti prodromici all’atto finale, intendendosi qui per documento dunque non solo il tradizionale documento notarile inteso quale “verbale di constatazione” della volontà delle parti (Santarcangelo).
Se il notaio riuscisse ad assumere un simile ruolo da una parte si velocizzerebbero i controlli che lo stesso pubblico ufficiale deve effettuare alla stipula del contratto di closing (per il caso in cui naturalmente si tratti di atto pubblico) essendo stato maggiormente partecipe dell’intera operazione economica conclusa dalle parti; dall’altra si fornirebbe un servizio migliore e più completo ai privati.
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