Resta, comunque, da vedere in quali tempi e in che termini l’esecutivo deciderà di attuare questa “controriforma” del settore pensionistico nazionale, a maggior ragione dopo una terapia shock come quella dell’ultima legge approvata sul tema, inserita a fine 2011 nel decreto Salva Italia e passata agli annali con il nome di Elsa Fornero, allora titolare del Welfare.
Come tutti sanno, si è trattato di una riforma epocale, che ha innescato una vera e propria rivoluzione sulla sfera socio economica dei lavoratori più attempati, non senza dare vita a storture e clamorosi errori, primo tra tutti, naturalmente, quello che ha prodotto centinaia di migliaia di esodati, lavoratori in mobilità o usciti dal lavoro tramite accordi individuali e collettivi, che si sono ritrovati improvvisamente senza più diritti alla prestazione pensionistica.
Nello specifico, la riforma Fornero, se garantisce decine di miliardi di euro di risparmio alle finanze statali in pochi anni – come ha certificato sia l’Inps che la Ragioneria di Stato, per un range che varia dai 20 agli 80 miliardi di euro di esborso ridotto al netto dei decreti esodati – dall’altro lato fissa una serie di scadenze a cui le eventuali modifiche del governo Letta dovranno giocoforza adeguarsi, non essendo in programma interventi strutturali di ridefinizione, ma solo correttivi che intervengano sull’impianto già in essere.
Così, vediamo come a partire dal 2016 dovrebbe scattare il prossimo gradino sull’adeguamento alla speranza di vita – generalmente riferibile in tre mesi di lavoro in più – secondo quelli che sono i dati rilevati annualmente dall’Istat sull’età media. Quindi, dal 2019 e, in seguito, ogni biennio, i criteri anagrafici verranno continuamente aggiornati.
Nel frattempo, invece, dal 2018 è in programma il raggiungimento della parità di accesso tra uomini e donne, quando si arriverà per tutti a 66 anni e 7 mesi di età – per le pensioni dovute a criteri di anzianità – o 42 anni e 10 mesi per l’accesso al pensionamento anticipato.
Al contempo, altre innovazioni portate sempre dalla legge Fornero avranno un impatto più lento, come ad esempio il passaggio da retributivo alla totalità contributiva, che al 2025, secondo le previsioni, sarà ancora piuttosto indietro, con il 65% dei trattamenti secondo il vecchio sistema e solo il 4% al contributivo puro.
Come potranno essere conciliati questi assunti con la proposta ancora in via di definizione, di portare l’età pensionabile a 62 anni con 35 di contributi, introducendo penalizzazioni per chi esce sotto i 65 e bonus equivalenti per chi resta fino ai 70?
Probabilmente, un asso nella manica potrebbe essere quello della previdenza complementare, che, secondo il cronoprogramma della riforma Fornero, dovrebbe acquisire sempre più rilevanza nell’erogazione dell’assegno pensionistico. Così, una compresenza sa della quota previdenziale statale, che di quella complementare, potrebbe consentire, soprattutto ai meno anziani che andranno i pensione nei prossimi decenni, di avere una pensione più affine allo stipendio conseguito in età lavorativa e, insieme, assicurare all’Inps e agli enti pubblici di fare fronte alle modifiche nei requisiti senza prosciugare le proprie e già malandate finanze.
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