Come ormai pare evidente, l’unico testo che arriverà alla conversione in legge entro fine anno sarà quello della legge di stabilità per il biennio a venire, punto di non ritorno sia della maggioranza inedita nata un anno fa, che dell’esperienza tecnica del team di Monti.
Va da sé che da questo caos istituzionale alcuni rimedi impostati dal governo rischino di restare nell’ambito dei buoni propositi, o, in alternativa, di fare la fine di riforme zoppe, per lo meno nelle intenzioni.
E’ questo il caso del congedo parentale, annunciato come una rivoluzione nel welfare del nostro Paese, che avrebbe aperto le porte a un sistema di alternanza lavoro-famiglia diverso da quello conosciuto in Italia fino a oggi.
Perché questa novità dovrebbe restare incompiuta? Semplicemente, perché a gettare le basi normative e operative del nuovo congedo parentale, dovevano essere tre provvedimenti distinti nella forma e nei tempi di approvazione: la riforma del lavoro, il decreto sviluppo e il testo di freschissimo concepimento che avrebbe messo al riparo da possibilità di sanzioni da parte della Comunità europea.
Proprio quest’ultimo rischia di finire al macero in seguito allo stop impresso dal Pdl all’incedere governativo: in questo modo, la riforma del congedo sarà in vigore, ma incompleta rispetto alle motivazioni originarie.
Sulla riforma del lavoro, legge 92/2012, basti ricordare che, sin dal testo convertito in legge la scorsa estate, veniva introdotto il principio dei nuovi regimi di congedo garantiti ai padri a partire dal primo gennaio 2013.
Nella legge Fornero, infatti, viene sancito l’obbligo per il papà di restare a casa dal lavoro, per un giorno, a retribuzione completa entro i cinque mesi dalla nascita del figlio, più due ulteriori giornate in eventuale accordo con la moglie e in sua sostituzione.
Inoltre, alla madre viene riconosciuto il diritto di accesso per undici mesi dopo la nascita e come opzione alternativa al congedo, di usufruire tramite appositi voucher di baby sitter, oppure di appoggiarsi agli asili nido. Le modifiche introdotte con la riforma saranno valide in via sperimentale fino al 2015.
Quindi, nel decreto sviluppo bis, approvato pochi giorni fa alla Camera e con il quale è iniziata formalmente la crisi di governo, prevede per entrambi i genitori di restare a casa dal posto di lavoro in caso di malattie per un figlio che non abbia oltre 3 anni. Sarà il medico di base a provvedere all’invio del documento di certificazione nei database dell’Inps, il quale penserà in autonomia a inoltrarlo direttamente al datore di lavoro.
Qui, però, sorge già il primo punto interrogativo, dal momento che la disciplina attuativa di questa misura dovrà arrivare nel giugno 2013, dunque ben oltre la fine dell’attuale esecutivo e le successive elezioni politiche.
Ma più di tutto, a fortissimo rischio è il decreto che avrebbe dovuto fungere da salvagente in vista di procedure sanzionatorie da parte delle istituzioni europee, approvato dall’ultimo Consiglio dei ministri.
Nel testo licenziato all’ultima riunione ministeriale, viene data applicazione a una direttiva comunitaria che impone il calcolo orario dei congedi parentali, più la possibilità, tra lavoratore in congedo e datore di lavoro, di negoziare l’eventuale ripresa dell’attività lavorativa.
Disposizioni che hanno poche possibilità di essere tramutate in legge entro la fine della legislatura e che, essendo peraltro contenute in un decreto, è pressoché impossibile vengano convertite nell’arco di 60 giorni, durante i quali, verosimilmente, dovrebbe svolgersi la campagna elettorale ormai alle porte.
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