Terremoto: la sentenza L’Aquila e il baratro tra scienza e giustizia

Delle due, l’una. O i terremoti non si possono prevedere, oppure è giusto punire chi non si adopera al massimo per mettere in guardia una popolazione a rischio.

La sentenza pronunciata ieri dal Tribunale dell’Aquila è già passata alla storia (guarda il video del verdetto): per la prima volta un gruppo di esperti è stato condannato per aver minimizzato il pericolo di un sisma.

La vicenda è nota: da fine 2008, sul territorio aquilano era iniziato uno sciame sismico, con scosse a gradi variabili di intensità, tali da gettare nel panico la popolazione. Il timore, come sempre succede, era quello di un evento che la scienza distaccatamente definirebbe “importante”, ma che per le persone avrebbe una portata a dir poco distruttiva.

Più volte interrogati sulla concretezza di un tale pericolo, gli specialisti della Commissione Grandi Rischi, che riunisce i vertici della Protezione Civile a rappresentanti qualificati del mondo scientifico, aveva adottato una linea di comunicazione volta a tranquillizzare la cittadinanza.

Eppure, come purtroppo spesso succede, ciò che, a denti stretti, veniva definito improbabile, è accaduto: alle 3:32 del 6 aprile 2009, un terremoto di 5.9 gradi della scala Richter ha colpito il capoluogo abruzzese e le zone limitrofe, spazzando via alcune località – come Onna – e lasciando il centro dell’Aquila in condizioni ancora oggi spettrali.

Il bilancio fu tragico: oltre 300 vittime, danni stimati in oltre 10 miliardi di euro, migliaia e migliaia di sfollati. Un cataclisma immane, una ferita ancora apertissima nella coscienza nazionale, tanto è vero che gli strascichi, come dimostra la sentenza di ieri, sono ben lungi dall’essere terminati.

Dal momento della scossa, la popolazione ha cominciato con sempre più insistenza a chiedere risposte. Risposte agli scienziati, accusati di non aver adeguatamente avvertito sul rischio del sisma, risposte alla politica, risposte allo Stato, risposte alla giustizia.

Queste, quando son arrivate, hanno seguito un ordine sparso e la sentenza di ieri ne è la più netta dimostrazione. Come conciliare, infatti, la posizione ufficiale della scienza sui terremoti con una colpevolezza dimostrata in sede di giudizio per chi avrebbe dovuto prevenire gli effetti del sisma e invece sarebbe venuto meno ai propri doveri?

Ancora una volta, tra scienza e giustizia si apre un divario che al momento sembra incolmabile, come accaduto negli ultimi giorni con la sentenza della Cassazione riguardo la nocività dei telefoni cellulari, ancora tutta da verificare secondo gli studi ufficiali.

La sostanza, anche sui terremoti, è simile: non esistono analisi confermate che dimostrino ineluttabilmente la prevedibilità dei terremoti, ergo sbilanciarsi su di essi è impossibile.

Lo abbiamo visto, anche di recente,con il terremoto in Emilia: dopo la prima scossa, i rappresentanti delle istituzioni si sono precipitati a sostenere di grancassa come tracciare un qualche profilo di evoluzione dello sciame sarebbe stata pura speculazione scientifica. Non esistendo strumenti che la comunità scientifica riconosce validi a indicare la possibilità di nuove scosse, gli uomini dello Stato hanno ripetuto a più non posso il solito ritornello, in sintesi: “Non possiamo dire niente con certezza“.

Il loro atteggiamento, a ben vedere, riassume la schizofrenia che si è conclamata con la sentenza di ieri: se, da una parte, permane il rischio di procurato allarme per chi mette in apprensione i cittadini senza valida ragionedall’altra, ora, emerge la specificità giuridica opposta: gli avvertimenti insufficienti.

Se questo è il quadro, chi rappresenta l’interesse pubblico, ed è ben pagato per farlo, come può svolgere operosamente il proprio dovere? Di fronte a eventi che la scienza reputa imprevedibili, quale linea deve assumere chi ha il ruolo di proteggere la popolazione e, contemporaneamente, impersonare le istituzioni anche quando essere sono ridotte a macerie, come successe alla Prefettura dell’Aquila in seguito al sisma?

E soprattutto, perché la responsabilità delle perdite umane non ricade in primo luogo su chi ha costruito e dichiarato agibili edifici come la Casa dello Studente, dove sono morti giovani le cui storie di fragilità fanno ancora rabbrividire, o, ancora, chi si è servito di materiali scadenti per edificare strutture in una delle aree più sismiche del mondo?

Dalla scienza, vengono bollati come ciarlatani coloro che, in base a tecniche disparate, sostengono di avere la capacità di prevedere eventi sismici. Dalla giustizia, ci aspettiamo trattamento commisurato per chi, la notte dopo il sisma, ridacchiava o – peggio – allungava le sue mani influenti per pilotare i futuri appalti.

Franco Barberi, Enzo Boschi, Mauro Dolce, Bernardo De Bernardinis, Giulio Selvaggi, Claudio Eva e Gianmichele Calvi – i membri dell’allora Commissione Grandi Rischi – sono stati condannati a 6 anni. I loro omologhi odierni, in un atto di solidarietà, si sono dimessi in blocco.

Toghe e uomini di scienza non si accorgono che svolgono le loro funzioni per migliorare la vita delle persone, sia che si tratti di progresso che in termini di giustizia. Di fronte a simili contraddizioni, però, è palese come l’unico effetto che si sortisca sulle persone è del tutto simile all’insicurezza che segue una scossa di terremoto, e ne attende, con fatalità e un briciolo di rassegnazione, la successiva.

 

Francesco Maltoni

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