Modifiche alla Legge Pinto: oltre al danno, la beffa!

Lucia Polizzi 25/09/12
Il Decreto- legge n. 83 del 22 giugno 2012, convertito in legge n.134/2012, cambia le regole e le procedure della celebre Legge Pinto (L. n. 89/2001), che consente di ottenere un’equa riparazione a chi abbia subito un danno patrimoniale e/o non patrimoniale dall’ingiusta durata di un processo.

Da un lato, la novella legislativa snellisce le modalità di ricorso: decide infatti, con decreto inaudita altera parte, un giudice monocratico di Corte d’Appello su una domanda modellata sulla forma del ricorso per ingiunzione di pagamento.

La riforma introduce inoltre parametri fissi sia sul quantum risarcitorio che sui tempi di durata ragionevole del giudizio : il giudice liquiderà infatti una somma compresa tra 500 euro e 1.500 euro, per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo, e che comunque non potrà mai essere superiore al valore della causa. Invece il danno sarà considerato integrato ed esistente solo se risultino superati i sei anni di durata del giudizio (tre anni in primo grado, due in secondo e uno nel giudizio di legittimità).

Viene ribadito il termine decadenziale della domanda: il ricorso può essere proposto esclusivamente entro sei mesi dal provvedimento giudiziale definitivo che conclude il procedimento, e non sarà più possibile invocare l’equa riparazione in pendenza di giudizio.

Da un’altra angolazione però, le modifiche normative apportate dilatano oltremodo la discrezionalità decisoria del Collegio rispetto alla verifica sulla esistenza stessa del danno. Il giudice infatti , nell’accertare la violazione il giudice valuta :

– la complessità del caso,

– l’oggetto del procedimento,

– il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.

Peraltro, il decreto tipizza i casi in cui non è possibile chiedere e ottenere alcun indennizzo, ossia:

– in favore della parte soccombente condannata a norma dell’art. 96 c.p.c. per lite temeraria,

– nel caso in cui la domanda del ricorrente sia stata accolta in misura non superiore alla proposta conciliativa,

– nel caso in cui il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa,

– nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; o quando l’imputato non abbia depositato istanza di accelerazione del processo penale nei 30 giorni successivi al superamento dei limiti di durata considerati ragionevoli dall’art 2 bis della legge in discorso;

– e, in via residuale, ogniqualvolta sia constatabile un abuso dei poteri processuali che abbia procrastinato ingiustificatamente i tempi del procedimento.

E, dulcis in fundo, al comma 5 quater, si manifesta la beffa: qualora infatti la domanda sia, agli occhi del giudicante, inammissibile o manifestamente infondata, il ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1000 euro e non superiore a 10.000 euro in favore della Cassa delle Ammende!

Tutto “merito” del legislatore italiano, che – con un decreto legge!- è riuscito a trasformare un diritto tutelato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo in un nuovo eventuale introito per le Casse dello Stato!!

Lucia Polizzi

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