La Prof, infatti, si rivolgeva al bambino con espressioni che ne mortificavano la sua dignità, rimproverandolo e minacciandolo di sottrarlo alla tutela dei genitori, causandogli in tal maniera un disagio psicologico per il quale è stato necessario sottoporlo a cure mediche e a un percorso di psicoterapia.
I giudici ribadiscono che l’uso della violenza, fisica o psichica, distortamente finalizzata a scopi ritenuti educativi, è illecita.
Da ciò ne consegue, da una parte, che ogni intervento correttivo o disciplinare non può ritenersi lecito per il solo fatto di essere soggettivamente finalizzato a scopi educativi o disciplinari, e dall’altra che può essere abusiva la condotta, di per sé non illecita, quando il mezzo è usato per un interesse diverso da quello per cui è stato conferito, per esempio a scopo vessatorio.
A nulla è valsa la giustificazione della Prof., la quale ha ritenuto il suo comportamento volto ad interrompere una condotta “bullistica” dell’alunno, che aveva tenuto un atteggiamento derisorio ed emarginante nei confronti di un altro compagno di classe.
Gli ermellini, infatti, hanno sottolineato che “nel processo educativo, è essenziale la congruenza tra mezzi e fini, tra metodi e risultati, cosicché diventa contraddittoria la pretesa di contrastare il bullismo con metodi che finiscono per rafforzare il convincimento che i rapporti relazionali sono decisi dai rapporti di forza o di potere”.
L’obbligo di scrivere 100 volte “sono deficiente” era, a loro dire, idoneo a rafforzare nel ragazzo il convincimento che i rapporti relazionali sono, per l ‘appunto, regolati dalla forza, quella sua verso i compagni più deboli, quella dell’insegnante verso di lui.
Pertanto, il comportamento dell’insegnante, anche se volto a scopi educativi o disciplinari, ha arrecato un danno alla salute dell’allievo e pertanto viene condannata per il reato ex articolo 571 c.p. a 15 giorni di carcere (pena ridotta in seguito a rito abbreviato).
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