Reintroduzione delle preferenze o collegi uninominali; premio di maggioranza al maggior partito o alla coalizione; liste bloccate; proporzionale puro: questi i temi in discussione.
Tutti concordano – e su questo non si può che essere d’accordo – sull’esigenza di porre fine alla triste esperienza dell’attuale legge elettorale.
Ma si ha l’impressione che il chiaro, alto e nobile tema della contesa tra i partiti non appare essere quello di dare al Paese una legge migliore, ma di trovare quella che nel breve periodo – visti i sondaggi, le possibili alleanze, le prospettive di successo elettorale – possa ritornare più utile a questo o quel partito.
La tanto annunciata riforma costituzionale del sistema parlamentare sembra naufragare; e forse è meglio così visto il testo approvato in prima deliberazione dal Senato il 25 luglio scorso su un testo sul quale avevamo avuto già modo di segnalare molte criticità ulteriormente aggravate dall’introduzione, mal coordinata con il nostro sistema costituzionale, dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica (come risulterebbe dagli articoli 83 e seguenti della Costituzione riformulati dalla proposta approvata dal Senato) e del “Senato federale della Repubblica”.
Con il naufragio della riforma, che difficilmente prima della fine della legislatura, potrà essere approvata in doppia lettura dai due rami del Parlamento e soprattutto potrà raggiungere la maggioranza qualificata prevista dall’art. 138 della Costituzione, salta la riduzione del numero dei parlamentari.
Una riduzione, condivisa a parole da tutti, che avrebbe potuto essere certamente approvata prima della scadenza della legislatura, sganciata da riforme ordinamentali che incidono in modo poco ponderato e coordinato sull’assetto costituzionale della Repubblica e coerentemente unita alla tanto proclamata riforma della legge elettorale, per ridare davvero potere di scelta ai cittadini.
Ma le cronache politiche recenti ci offrono uno scenario totalmente diverso.
E forse era proprio questo l’esito voluto.
Ma il tanto affannarsi delle forze politiche, sui temi elettorali, stride fortemente con il silenzio nel quale sono state approvate negli ultimi mesi riforme che ipotecano il futuro di ogni politica economica per il nostro Paese per i prossimi decenni.
Prima l’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione, con la Legge Costituzionale 20 aprile 2012 n. 1, e poi con l’approvazione in via definitiva il 19 luglio scorso dei tre disegni di legge riguardanti la ratifica dei Trattati sul Fiscal Compact e sul Meccanismo europeo di stabilità.
Sull’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione e su tutti gli effetti connessi alla riforma ci permettiamo di rinviare all’analisi già svolta sull’argomento.
E’ utile ricordare al riguardo l’appello sottoscritto da ben cinque premi Nobel per l’economia ed altri illustri economisti al Presidente Obama pochi mesi fa in cui si chiede che: “venga respinta qualunque proposta volta ad emendare la Costituzione degli Stati Uniti inserendo un vincolo in materia di pareggio del bilancio. Vero è che il Paese è alle prese con gravi problemi sul fronte dei conti pubblici, problemi che vanno affrontati con misure che comincino a dispiegare i loro effetti una volta che l’economia sia forte abbastanza da poterle assorbire, ma inserire nella Costituzione il vincolo di pareggio del bilancio rappresenterebbe una scelta politica estremamente improvvida.
Aggiungere ulteriori restrizioni, cosa che avverrebbe nel caso fosse approvato un emendamento sul pareggio del bilancio, quale un tetto rigido della spesa pubblica, non farebbe che peggiorare le cose.
Nei momenti di difficoltà economica diminuisce il gettito fiscale e aumentano alcune spese tra cui i sussidi di disoccupazione.
Questi ammortizzatori sociali fanno aumentare il deficit, ma limitano la contrazione del reddito disponibile e del potere di acquisto.
Chiudere ogni anno il bilancio in pareggio aggraverebbe le eventuali recessioni.
Nell’attuale fase dell’economia è pericoloso tentare di riportare il bilancio in pareggio troppo rapidamente.
I grossi tagli di spesa e/o gli incrementi della pressione fiscale necessari per raggiungere questo scopo, danneggerebbero una ripresa già di per sé debole”.
I nostri parlamentari avranno certamente tenuto conto di tali autorevoli avvertimenti!
I trattati, ratificati il 19 luglio, delineano un complesso di interventi inseriti in un ampio quadro di revisione della governance economica europea quale risposta dell’UE alla grave crisi dei debiti sovrani.
Tale risposta si fonda su due pilastri: il rafforzamento delle regole e del monitoraggio comune per la disciplina fiscale (il cosiddetto “Fiscal Compact”) e la costruzione di meccanismi di sostegno finanziario per fronteggiare crisi di liquidità o periodi di difficile accesso ai mercati finanziari da parte di Paesi membri.
Il Trattato entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo al deposito del dodicesimo strumento di ratifica di uno Stato parte contraente, aderente all’area dell’euro.
Alla data del 12 luglio 2012, secondo quanto riportato nel comunicato della Camera dei Deputati, il Fiscal Compact era stato ratificato da 9 Paesi (Cipro, Danimarca, Grecia, Irlanda, Lituania, Lettonia, Portogallo, Romania e Slovenia); in due 2 Stati (Austria e Germania) è stato completato l’iter parlamentare della ratifica ma i relativi strumenti non sono stati ancora firmati dal Presidente della Repubblica.
Non so quanta consapevolezza abbiano i nostri Parlamentari sul fatto che, ratificando il fiscal compact, l’Italia ha delegato la sua sovranità in materia di bilancio, che è l’essenza stessa dell’attività di governo, non agli Stati Uniti d’Europa, non a un governo europeo democraticamente eletto ma a un insieme di regole dettate da un accordo interstatale.
Con l’espressione “fiscal compact” viene indicato l’obbligo, per l’Italia, di portare l’ammontare totale del debito pubblico al 60% del Pil entro 20 anni.
Tale obiettivo di ricondurre il debito pubblico sotto il 60% nell’arco di 20 anni significa, per il nostro Paese, il cui debito è pari al 120%, una riduzione pari al 3% ogni anno.
Si tratta di manovre comprese tra i 40 ed i 50 miliardi l’anno per i prossimi venti anni!
Le parti contraenti (gli Stati) si impegnano inoltre a coordinare meglio la collocazione dei titoli di debito pubblico, riferendo preventivamente alla Commissione e al Consiglio sui piani di emissione dei titoli di debito.
Qualsiasi parte contraente che consideri un’altra parte contraente inadempiente rispetto agli obblighi stabiliti dal patto di bilancio può adire la Corte di giustizia dell’UE, anche in assenza di un rapporto di valutazione della Commissione europea.
Ogni Stato deve garantire correzioni automatiche quando non sia in grado di raggiungere altrimenti gli obiettivi di bilancio concordati, con precise scadenze.
Il rapporto deficit/PIL deve essere mantenuto sempre al di sotto del 3%, come già previsto dal Patto di stabilità; sanzioni semi-automatiche scatteranno in caso di mancato rispetto del vincolo.
In questo contesto, le baruffe tra i partiti di maggioranza non so se devono stupirci o lasciarci indifferenti.
Sul fronte interno la situazione non cambia.
I partiti continuano a scontrarsi e dibattere se votare in autunno o in primavera 2013, ma intanto si continua a votare in Parlamento interventi che incidono fortemente sull’assetto istituzionale dello Stato, sui servizi ai cittadini.
Sarà una strategia per distogliere l’opinione pubblica o semplicemente “ignoranza” (in senso strettamente letterale e non offensivo) sui contenuti dei provvedimenti del Governo sottoposti alla “ratifica” del Parlamento attraverso ripetuti voti di fiducia?
E infatti a breve si voterà l’ennesima fiducia sul decreto legge sulla spending review che almeno per Regioni e Autonomie Locali si traduce in una nuova manovra economica, con tagli, quasi del tutto analoga alle molteplici che si sono succedute dal 2010 e che si aggiunge agli ulteriori obiettivi di risparmio già fissati dalle normative previste sul patto di stabilità interno a legislazione vigente (D. L. 78/2010, D. L. 98/2011, D. L. 138/2011 e D. L. 201/2011).
Si inasprisce il conflitto istituzionale.
Non si riesce davvero a comprendere l’atteggiamento del Governo nei confronti di Regioni e Autonomie Locali.
In un momento di crisi bisognerebbe costruire un’azione comune e condivisa tra tutte le Istituzioni della Repubblica: “l’unione fa la forza”.
Al contrario è un susseguirsi di conflitti, con innumerevoli ricorsi alla Corte Costituzionale.
E tutto ciò malgrado i continui moniti che derivano dalle ultime sentenze della Consulta.
“Lo Stato deve affrontare l’emergenza finanziaria predisponendo rimedi che siano consentiti dall’ordinamento costituzionale. Allo Stato non è attribuito il potere di derogare al riparto delle competenze fissato dal Titolo V della Parte II della Costituzione, neppure in situazioni eccezionali, che non possono essere invocate al fine di sospendere le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali stabilite dalla Costituzione” (Corte Costituzionale sentenze n. 148/2012 del 7 giugno 2012 e n. 151/2012 del 14 giugno 2012).
Dobbiamo stupirci dunque del silenzio che ha accompagnato il processo di modifica costituzionale sul pareggio di bilancio e di ratifica dei trattati, mentre in altri paesi europei su questi temi e sul connesso Fiscal Compact si stanno sviluppando discussioni e confronti assai vasti?
Così in Germania il dibattito continua, con la Corte costituzionale tedesca che ha rimandato la decisione al 12 settembre dopo il ricorso dalla Linke, il partito politico della sinistra tedesca e in Francia il presidente Hollande ne ha rallentato la ratifica, ribadendo peraltro la sua intenzione di non inserire la regola del pareggio di bilancio in Costituzione.
Dobbiamo stupirci se in un Paese come il nostro, in cui su questioni di scarsa rilevanza si fanno spesso campagne di stampa ampiamente sopra le righe, su un tema di così rilevante portata, che tocca un cardine della Costituzione e la strumentazione della politica economica presente e futura, il silenzio è totale?
Viene inserita una misura draconiana nella Costituzione italiana, che ipoteca le politiche economiche dei prossimi decenni, e tutto questo in Italia non suscita né dibattito né interesse.
Ma i nostri partiti hanno altro su cui dibattere: sarà meglio il ritorno al proporzionale, alle preferenze o al collegio uninominale?
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