Da una sponda – loro – le vittime, dall’altra – noi – i complici impotenti di una politica incapace di contrastare il fenomeno dell’immigrazione clandestina: entrambi, in ogni caso, perdenti e soli, in balia di un mare che ingannevolmente ci unisce.
Se gli sbarchi di questi ultimi giorni non costituiscono più una novità, tuttavia, rispetto al passato, l’Italia si trova a dover affrontare un’emergenza nell’emergenza. Infatti, Lampedusa è stata dichiarata “porto non sicuro” e il centro di prima accoglienza è stato chiuso dopo l’incendio dello scorso settembre in seguito al quale è stato quasi interamente distrutto.
“E’ fondamentale che Lampedusa abbia di nuovo un centro di accoglienza e soccorso, che sia soltanto una struttura di transito” a sostenerlo da tempo è Laura Boldrini, portavoce italiana dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati la quale sottolinea come il nostro precedente governo abbia forzato la mano, trasformando il centro di accoglienza in un centro di espulsione.
E’ anche per questo motivo se, lo scorso 23 febbraio, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per i respingimenti di massa in Libia.
Come è noto, l’Italia ha violato la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, in particolare il principio di non refoulement che proibisce di respingere migranti verso paesi dove possono essere perseguitati o sottoposti a trattamenti inumani o degradanti.
Più esattamente la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per la violazione di ben 3 principi fondamentali:
1) il divieto di sottoporre a tortura e trattamenti disumani e degradanti (art. 3 CEDU);
2) l’impossibilità di ricorso (art.13 CEDU);
3) il divieto di espulsioni collettive (art.4, IV Protocollo aggiuntivo CEDU)
Per la prima volta, la Corte ha equiparato il respingimento collettivo alla frontiera e in alto mare alle espulsioni collettive nei confronti di chi è già nel territorio.
Il caso Hirsi è diventato un film – inchiesta, recentemente uscito nelle sale. In “Mare chiuso” Stefano Liberti e Andrea Segre, con testimonianze inedite e immagini di repertorio, raccontano la storia sui respingimenti in mare effettuati dall’Italia, a seguito degli accordi con la Libia, partendo dall’epilogo, dalla sentenza con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per aver violato la Cedu.
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati aveva, già in passato, evidenziato che «la politica italiana dei respingimenti minava l’accesso all’asilo e violava il fondamentale principio del non respingimento che si applica in qualsiasi luogo gli stati esercitino giurisdizione sulle persone, anche in mare aperto». E questa sentenza prova, in effetti, come nelle operazioni di respingimento siano stati sistematicamente violati i diritti dei rifugiati.
Come correttamente osservato da Amnesty International “la sentenza stabilisce chiaramente che gli stati non possono agire con impunità quando è in gioco il trattamento delle persone intercettate in mare, in particolare quando ciò avviene al di là delle acque territoriali dello stato intercettante”. Ed infatti, “agli stati rimane sempre l’obbligo di garantire che le persone oggetto delle loro operazioni abbiano accesso a procedure e forme di ricorso individuali”. L’applicazione delle norme del diritto internazionale dei diritti umani in mare aperto richiede agli stati di esercitare la loro giurisdizione, sulle imbarcazioni e sulle persone intercettate, in un modo il più coerente possibile con tali norme.
La sentenza mette in discussione, ancora una volta, le politiche adottate dal precedente governo italiano in materia di contrasto all’immigrazione clandestina. Dopo la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 28 aprile 2011 che ha constatato l’incompatibilità del reato di “clandestinità” con la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008, n. 2008/115/CE , laddove prevedeva l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo per il solo motivo di permanere sul territorio italiano senza un regolare permesso di soggiorno, questa volta, l’Italia è stata condannata per la prassi dei respingimenti in mare adottata a seguito degli accordi bilaterali italo-libici entrati in vigore il 4 febbraio 2009.Nel caso di specie va ricordato che l’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Rifugiati non è mai stato riconosciuto dal governo di Tripoli e, secondo la Corte di Strasburgo, quando i ricorrenti sono stati respinti in Libia, le autorità italiane erano a conoscenza o, quantomeno, avrebbero dovuto sapere che vi fosse un serio pericolo, per gli stessi, di essere esposti al rischio di trattamenti inumani in violazione dell’art. 3 della Cedu. Il governo italiano era tenuto, inoltre, ad assicurarsi che lo stato libico offrisse adeguate garanzie per la tutela dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Al contrario la Libia non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra e non ha mai offerto nessuna adeguata procedura per avanzare richiesta di asilo o di protezione internazionale.
Con particolare riferimento alla violazione dell’art. 4 del IV Protocollo aggiuntivo, la Corte ha accertato che nessuna procedura di identificazione è stata effettuata dalle autorità italiane le quali, intercettando in mare i migranti e riaccompagnandoli in Libia, hanno – di fatto – posto in essere un vero e proprio respingimento collettivo ed arbitrario.
La Corte ha ritenuto sussistenti tutte le violazioni, affermando principi che contribuiscono a rafforzare le tendenze evolutive della giurisprudenza della Corte medesima su alcuni profili di importanza cruciale, quali i limiti al potere degli Stati di respingere ed espellere gli stranieri che tentano di fare ingresso sul loro territorio in maniera irregolare. Si tratta di limiti determinati da esigenze di tutela dei diritti fondamentali, qualificati come assoluti ed inderogabili. Richiamata la propria giurisprudenza del passato, la Corte ha applicato per la prima volta l’art. 4 del IV Protocollo aggiuntivo al caso di stranieri che non si trovavano sul territorio nazionale, bensì in alto mare, ricorrendo a un’interpretazione teleologica e funzionale della Cedu, conforme alla propria giurisprudenza (ma anche alla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati), che si fonda sul significato ampio di giurisdizione esercitata dallo Stato ai sensi dell’art. 1 della Cedu.
Le circostanze che determinano ipotesi di respingimento non esentano, infatti, lo Stato dall’obbligo di garantire allo straniero determinati diritti soggettivi. Il diritto internazionale generale impone agli ordinamenti nazionali quattro obblighi nei confronti di persone che subiscono un provvedimento di espulsione o di respingimento:
1. il divieto di esecuzione del provvedimento con forme ingiustificatamente violente e oltraggiose nei confronti dell’integrità fisica e della dignità della persona;
2. il divieto di allontanamento verso un Paese nel quale lo straniero corre il rischio di essere sottoposto a tortura, trattamenti o punizioni inumani o degradanti;
3. il divieto di grave, ingiustificata e sproporzionata rottura dell’unità familiare;
4. la necessità di garantire una forma di ricorso effettiva contro il provvedimento adottato dall’autorità.
Essendo posti a tutela della persona, i diritti garantiti dal sistema CEDU e dai relativi protocolli vanno osservati dallo Stato contraente sia sul piano nazionale, sia nell’ambito della cooperazione internazionale. Lo Stato è tenuto ad assicurare tutela all’individuo sottoposto alla sua giurisdizione anche da possibili violazioni poste in essere da un Paese terzo qualora, ad esempio, ciò sia la conseguenza di un provvedimento di estradizione o di una misura di allontanamento. Si tratta di un principio volto a sancire una responsabilità indiretta dello Stato contraente e ricavabile da numerose sentenze della Corte europea.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, attraverso tale importante decisione, ha segnato la fine dei respingimenti in mare operati dalle autorità italiane, invitando il nostro Stato a riflettere maggiormente sul rispetto dei diritti umani, soprattutto quando si intraprendono accordi con paesi che nulla fanno per adoperarsi su tale versante.
Si auspica che nell’immediato futuro ogni scelta politica in materia di contrasto all’immigrazione clandestina sia adeguatamente bilanciata con il rispetto imprescindibile dei diritti umani, affinchè il caso Hirsi sia solo un errore del nostro passato.
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