E proprio ieri sono state consegnate alla Camera dei Deputati circa 110mila firme a sostegno di due disegni di legge di iniziativa popolare che riformino le norme sulla cittadinanza. Uno, a riforma del diritto di cittadinanza, che prevede che i bambini nati in Italia da genitori stranieri regolari (da almeno un anno) possano essere cittadini italiani. L’altra, elaborata dall’Anci, a sostegno di una nuova norma che permette il diritto elettorale amministrativo ai lavoratori regolarmente presenti in Italia da cinque anni.
La legge italiana infatti non prevede il riconoscimento del diritto di cittadinanza per mero ius soli, cioè per il semplice fatto di essere nati in Italia.
La disciplina normativa della cittadinanza nel nostro paese deriva infatti dalla L. 5 febbraio 1992, n.91. Una legge decisamente obsoleta, che accoglie, con il solito pastrocchio made in Italy, i due criteri prevalenti per l’attribuzione della cittadinanza, lo ius sanguinis (è cittadino dello Stato Italiano chi ha i genitori cittadini) e, appunto, lo ius soli (è cittadino chi è nato nel territorio dello Stato).
Ai sensi della L. 91/1992 è cittadino per nascita:
– il figlio di padre o madre cittadini;
– chi è nato nel territorio dello Stato della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato quale questi appartengono;
– il figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica, se non venga trovato in possesso di altra cittadinanza.
La condizione giuridica dei bambini di origine straniera nati in Italia è così strettamente legata alla condizione dei genitori: solo se i genitori, dopo dieci anni di residenza legale, ottengono la cittadinanza, questa si trasmette ai figli. Altrimenti possono fare richiesta di cittadinanza solo al compimento del diciottesimo anno di età (e non oltre il compimento del diciannovesimo). A condizione, però, che siano in grado di dimostrare di aver vissuto ininterrottamente sul territorio italiano. Senza rispettare questa condizione, cosa peraltro non semplice dal punto di vista burocratico, addio alla cittadinanza, con conseguente rischio di essere considerati clandestini, con obbligo di lasciare l’Italia.
Una riforma della legge sulla cittadinanza diventa dunque quanto mai necessaria, come tra l’altro auspicato dal Presidente della Repubblica e da quello della Camera.
Attualmente sarebbero 48 i disegni di legge presentati alle Camere sulla cittadinanza in questa legislatura ma nessuno di questi ha trovato il consenso necessario per andare avanti. Ci si prova adesso con una proposta di legge di iniziativa popolare, con tutto quello che ne segue. E’ ancora tristemente amaro il ricordo del disegno di legge di iniziativa popolare depositato nel dicembre 2007 da Beppe Grillo, sostenuto da 350.000 firme di cittadini e lasciato a marcire nei cassetti di Palazzo Madama.
I numeri di questa nuova pregevole iniziativa parlano comunque chiaro: 109.268 le firme raccolte per la proposta di legge sulla cittadinanza; 106.329 per la proposta di legge sul diritto di voto. La maggiore adesione si è registrata in Lombardia (oltre 18mila firme), Emilia Romagna (15mila) e Piemonte (11mila). Un po’ meno nel Lazio (6mila) e in Campania (1.700). Un dato interessante, anche per constatare come i cittadini del nord Italia siano impegnati nella lotta all’uguaglianza tra i popoli molto più di quello che esponenti politici ai limiti della xenofobia vorrebbero farci credere.
“Le nostre – affermano i promotori dell’iniziativa – sono le norme più severe tra tutte quelle adottate dalle grandi democrazie europee. In altri Paesi l’acquisizione della cittadinanza può avvenire immediatamente alla nascita. Noi vogliamo che chi nasce in Italia, parla italiano, frequenta scuole italiane e condivide leggi dello Stato italiano, sia italiano a tutti gli effetti. Non solo di fatto. Ma di diritto. Chi nasce in Italia, è italiano”.
Ancora una volta la società civile si è dimostrata più matura della classe politica che la rappresenta.
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