Il testo dell’ordinanza che rinvia alla Corte Costituzionale il Codice del Processo Amministrativo

Redazione 25/09/11
Scarica PDF Stampa
1. La previsione di un termine decadenziale per proporre azione risarcitoria autonoma (fattispecie invero puramente teorica, anche a seguito dell’interpretazione dell’impianto codicistico resa dal diritto vivente: Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, decisione n. 3 del 2011), evidenzia che il codice non ha inteso discostarsi formalmente dall’indicazione del giudice dei diritti, ed ha ammesso l’autonoma proponibilità dell’azione risarcitoria, nel contempo sottoponendola ad un regime – almeno in punto di sbarramento temporale – molto più simile a (e compatibile con) quello dell’azione di annullamento del provvedimento amministrativo, che a quello della domanda di risarcimento del danno.

Se già questo esito appare fortemente discutibile, ancor di più lo è l’estensione – ad opera del comma 5 dell’art. 30 – di tale regime alla diversa fattispecie di azione risarcitoria preceduta dalla (pregiudiziale) impugnazione del provvedimento lesivo, caratterizzata, come accennato, dalla avvenuta, irrevocabile formazione della certezza giuridica sul profilo sostanziale della spettanza.

2. La tutela costituzionale dell’interesse legittimo è soddisfatta solo se il titolare può chiedere, oltre all’annullamento del provvedimento lesivo, il risarcimento per equivalente del danno che traguardi e completi gli effetti del giudicato di annullamento. L’azione di danno è dunque costituzionalmente necessaria.

La complementarietà dei rimedi evocata dalla citata giurisprudenza costituzionale ha però un senso se si mantiene la diversità strutturale degli stessi e delle corrispondenti tecniche di tutela: se invece si assimila – quanto alle condizioni di accesso – quello risarcitorio a quello caducatorio, la complementarietà si riduce ad una astratta petizione di principio, risolvendosi in concreto la tutela dell’interesse legittimo nella sola possibilità di contestare entro un breve termine di decadenza la legittimità del provvedimento (a fini caducatori, ovvero a fini risarcitori).

– – –

N. 01628/2011 REG.PROV.COLL.

N. 00671/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 671 del 2011, proposto da *************, rappresentato e difeso dagli avv. ************ e ****************, con domicilio eletto presso l’avv. **************** in Palermo, via M. Stabile 241;

contro

Ministero della Salute, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Palermo, presso i cui offici, in Palermo, via A. De Gasperi 81, è domiciliato per legge;

per l’esecuzione

della sentenza del T.A.R. Sicilia, sede di Palermo, n. 4140 del 20 dicembre 2006.

Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio di Ministero della Salute; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 5 luglio 2011 il dott. ****************** e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

1. Con ricorso per esecuzione di giudicato notificato il 25 marzo 2011, e depositato il successivo 31 marzo, il prof. ************* ha chiesto l’esecuzione della sentenza di questo T.A.R. n. 4140 del 20 dicembre 2006, confermata a seguito di decisione del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, n. 1042 del 15 dicembre 2008.

Espone, in particolare l’odierno ricorrente:

– di essere stato designato componente del collegio sindacale dell’Azienda Ospedaliera “Civico-Fatebenefratelli-M. Ascoli- Di Cristina” in data 5 aprile 2006 quale rappresentante del Ministero della Salute;

– che lo stesso Ministero, con successiva nota 29 maggio 2006, ha revocato la designazione;

– che la revoca, impugnata dallo stesso prof. *****, è stata annullata dalla sentenza di questo T.A.R. n. 4140 del 20 dicembre 2006, confermata a seguito di decisione del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, n. 1042 del 15 dicembre 2008.

– di essersi insediato quale componente del collegio sindacale solo in data 21 luglio 2007.

Nel ricorso in esame il prof. ***** lamenta la mancata percezione dei compensi economici relativi alla funzione di componente del collegio sindacale, dal 16 ottobre 2006 (data di insediamento dell’organo) al 31 luglio 2007.

Chiede quindi che, in esecuzione del giudicato formatosi sulle richiamate sentenze di primo e secondo grado, il Ministero intimato sia condannato al pagamento:

a) della somma di € 11.641,05 (corrispondenti agli emolumenti non percepiti), oltre interessi e rivalutazione, ai sensi dell’art. 112, comma 3, del codice del processo amministrativo;

b) delle spese del giudizio di annullamento della revoca, liquidate in complessivi euro 1.500,00, mai corrisposti dall’amministrazione (anche in questo caso con interessi e rivalutazione).

2. Con memoria depositata il 31 maggio 2011, si è costituito in giudizio il Ministero della Salute, con il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato.

L’amministrazione intimata chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile o comunque improcedibile sulla base delle seguenti argomentazioni:

– l’amministrazione ha pienamente ottemperato alla sentenza che ha annullato la revoca della designazione, provvedendo ad immettere nella funzione il prof. *****;

– conseguentemente, non vi è materia di giudizio di ottemperanza, in quanto il ricorrente nella realtà non lamenta la mancata esecuzione del giudicato di annullamento, ma domanda il risarcimento per equivalente monetario del danno da illegittimo esercizio della funzione;

– il terzo comma dell’art. 112 del codice del processo amministrativo non sarebbe invocabile, in quanto non si discute di un danno da mancata esecuzione o da violazione o elusione di giudicato (dal momento che l’odierno ricorrente è stato integrato nella funzione addirittura prima dell’intervenuta formazione del giudicato di annullamento, conseguente alla sentenza di secondo grado, e quindi già in sede di esecuzione della sentenza di primo grado gravata ma non sospesa);

– il quarto comma del citato art. 112, in astratto invocabile, è però in concreto rimedio non percorribile, attesa l’intervenuta proposizione della domanda ben al di là del termine decadenziale di centoventi giorni dall’avvenuta formazione del giudicato di annullamento, stabilito dall’art. 30, comma 5 del codice, espressamente richiamato dal quarto comma dell’art. 112.

Il ricorso è stato trattenuto in decisione all’udienza camerale del 5 luglio 2011.

3. Osserva preliminarmente il collegio, in punto di qualificazione della domanda e di conseguente individuazione del suo regime, come la prospettazione posta a fondamento della memoria dell’Amministrazione sia pienamente condivisibile.

Fatta eccezione per la parte (del tutto marginale) relativa al mancato pagamento delle spese processuali del processo di cognizione, che inerisce ad un profilo di mancata esecuzione del giudicato formatosi all’esito di tale giudizio, la domanda proposta con il ricorso in esame non attiene propriamente né alla esecuzione del giudicato di annullamento, né ad un danno da mancata esecuzione di giudicato.

La statuizione caducatoria contenuta nella sentenza resa all’esito del giudizio di cognizione di primo grado, confermata in appello, risulta essere stata eseguita mediante attuazione dell’effetto ripristinatorio. L’odierno ricorrente è stato, infatti, reintegrato nella funzione nel corso del giudizio di appello: di talché, come correttamente dedotto dalla difesa erariale, appena venuto ad esistenza il giudicato di annullamento risultava in realtà già eseguito, in relazione a tutti i suoi effetti.

Né le conclusioni mutano ove s‘intenda la presente domanda come rivolta non all’esecuzione del giudicato, ma della sentenza di primo grado non sospesa: quest’ultima risulta pienamente eseguita prima della conferma in appello.

Si è dunque fuori dall’ambito di applicabilità dell’art. 112, comma 3, cod. proc. amm., secondo cui nel giudizio di ottemperanza “può essere proposta anche azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza, nonché azione di risarcimento dei danni derivanti dalla mancata esecuzione, violazione o elusione del giudicato”.

L’effetto conformativo del giudicato di annullamento, e quello ripristinatorio, non si spingono, in questi casi, al punto da imporre all’amministrazione, oltre al reintegro, anche la corresponsione degli emolumenti economici per la durata dell’efficacia del provvedimento annullato (nel qual caso la pretesa sarebbe azionabile in sede esecutiva entro il termine decennale consentito dall’actio iudicati): tale adempimento attiene alla refusione di danno da provvedimento illegittimo e non costituisce effetto naturale del giudicato di annullamento (anzi, è proprio la non riparabilità di tale pregiudizio mediante la rimozione del provvedimento lesivo a rendere necessario il ricorso alla tecnica di tutela complementare a quella caducatoria, consistente nella ripristino per equivalente monetario delle situazioni lese) .

La fattispecie è del resto strutturalmente identica a quella relativa al danno da ritardata assunzione: con l’unica differenza che l’odierno ricorrente lamenta il ritardato conferimento di funzioni onorarie, piuttosto che la ritardata costituzione del rapporto di servizio.

Il ricorrente chiede in realtà proprio il risarcimento del danno patrimoniale subìto per effetto della emanazione di un provvedimento amministrativo (poi dichiarato) illegittimo, per il periodo in cui detto provvedimento ha avuto esecuzione (danno che lo stesso ricorrente quantifica con riferimento alla mancata percezione dei relativi emolumenti per il periodo considerato).

Tale fattispecie, che inerisce ad un’area di danno non risarcita né risarcibile – per ragioni diacroniche – mediante la mera esecuzione del giudicato di annullamento del provvedimento lesivo, si inquadra perfettamente nell’ambito precettivo dell’art. 112, comma 4, cod. proc. amm, che recita:. “nel processo di ottemperanza può essere altresì proposta la connessa domanda risarcitoria di cui all’ articolo 30, comma 5, nel termine ivi stabilito. In tal caso il giudizio di ottemperanza si svolge nelle forme, nei modi e nei termini del processo ordinario”.

E’ appena il caso di osservare che sulla giurisdizione del giudice amministrativo – sia per i profili caducatori, sia a questo punto per i connessi profili risarcitori – si è comunque formato il giudicato.

4. Il collegio dovrebbe quindi disporre anzitutto la conversione del rito ai sensi dell’ultimo periodo della norma appena trascritta..

La stessa disposizione, tuttavia, subordina la praticabilità di tale soluzione (vale a dire, l’ammissibilità dell’azione risarcitoria mediante conversione del rito) all’avvenuta verifica del rispetto del termine decadenziale di cui all’art. 30, comma 5, cod. proc. amm.

Quel precetto stabilisce invece che “nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza”.

Nel caso in esame il ricorso risulta essere stato notificato il 25 marzo 2011: il predetto termine di centoventi giorni risulta pertanto superato: sia che si assuma come dies a quo il momento del passaggio in giudicato della sentenza (coincidente con la pubblicazione della decisione in grado di appello: 15 dicembre 2008); sia che – posto che la richiamata disciplina è entrata in vigore solo successivamente alla formazione di quel giudicato – si assuma come dies a quo il momento della entrata in vigore del codice del processo amministrativo: cioè il 16 settembre 2010.

L’azione risarcitoria sarebbe comunque tempestiva se, in assenza della delimitazione decadenziale posta dal citato art. 30, la sua proposizione fosse subordinata – secondo il diritto comune – unicamente al rispetto del termine (quinquennale) di prescrizione: sia che si assuma come dies a quo il momento dell’adozione del provvedimento lesivo (29 maggio 2006); sia che si abbia riguardo al momento della definitività del suo annullamento, all’esito dell’impugnativa giurisdizionale (15 dicembre 2008), collocandosi il momento della notifica del ricorso entro il quinquennio decorrente dall’emanazione dell’atto lesivo (e che include il successivo e definitivo accertamento giurisdizionale della illegittimità di questo).

Ne discende la rilevanza, ai fini del decidere, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 30, comma 5, del codice del processo amministrativo: diversamente, il ricorso in esame dovrebbe essere considerato senz’altro irricevibile.

Ove la norma medesima fosse dichiarata costituzionalmente illegittima, la domanda proposta con il presente ricorso sarebbe sicuramente tempestiva, alla stregua dell’ordinario termine prescrizionale cui le azioni risarcitorie per illegittimo esercizio della funzione erano sottoposte prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo.

5. Sempre in punto di rilevanza della questione, il collegio deve dar conto di un’ulteriore opzione esegetica astrattamente praticabile.

Potrebbe sostenersi che il termine decadenziale previsto dal quinto comma dell’art. 30 cod. proc. amm. trovi applicazione soltanto per i giudicati di annullamento formatisi successivamente all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo: nel qual caso, nella fattispecie dedotta nel presente giudizio, l’eccezione d’irricevibilità sollevata dalla difesa erariale sarebbe da respingere, per inapplicabilità del precetto concernente il termine decadenziale..

Simile esegesi, tuttavia, non pare al collegio compatibile con il testo delle considerate prescrizioni, peraltro in presenza di una disciplina transitoria coerente a tale assunto..

L’art. 2 delle norme transitorie di cui all’allegato 3 del codice del processo amministrativo, stabilisce che “per i termini che sono in corso alla data di entrata in vigore del codice continuano a trovare applicazione le norme previgenti”.

La disposizione sembra infatti pacificamente riferirsi ai termini processuali propriamente detti: laddove la previsione di uno sbarramento decadenziale per l’esercizio del diritto incide piuttosto sulla sua delimitazione già sul piano sostanziale.

Inoltre, ciò che appare dirimente, la Relazione al codice fornisce un autorevole e significativo avallo in questo senso, quando specifica che la regola transitoria in esame si riferisce “ai processi pendenti alla data di entrata in vigore del nuovo codice”: la proposizione della domanda risarcitoria – sia in via autonoma, sia a seguito di annullamento giurisdizionale del provvedimento lesivo – implica viceversa l’introduzione di un nuovo processo, sicché la disciplina del termine decadenziale per la proposizione di quest’ultimo esula per definizione dal regime transitorio in esame.

Per mitigare il possibile rigore delle conseguenze applicative derivanti dall’entrata in vigore del codice del processo amministrativo in materia risarcitoria, può semmai ritenersi che nelle fattispecie d’illecito provvedimentale che si pongono a cavallo dell’entrata in vigore del codice, il dies a quo (coincidente con la conoscenza del provvedimento lesivo, o con il definitivo accertamento della sua illegittimità: a seconda che si abbia riguardo all’ipotesi di azione risarcitoria autonoma, ovvero a quella di proposizione pregiudiziale dell’azione caducatoria) venga spostato in avanti, al momento, cioè, dell’entrata in vigore del codice, nel qual caso i centoventi giorni andrebbero a scadere il 14 gennaio 2011.

Il collegio, come accennato, si è fatto carico di accertare la possibilità di praticare una simile interpretazione: ma essendo stato notificato il ricorso il 25 marzo 2011, dunque successivamente a tale ulteriore termine, neppure questa possibile opzione esegetica consente di eludere l’interrogativo di fondo connesso al dubbio di legittimità costituzionale della disciplina del citato termine decadenziale.

6. La non manifesta infondatezza della questione discende, ad avviso del collegio, dal rilievo della irragionevole compressione – ad opera della disposizione censurata: art. 30, comma 5, cod. proc. amm. – del diritto di difesa in giudizio della parte danneggiata, con violazione degli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione.

Il comma 3, prima parte, dell’art. 30 cod. proc. amm. stabilisce che “la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi è proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo”.

Il successivo comma 5, oggetto specifico del dubbio di legittimità costituzionale con riferimento alla fattispecie dedotta nel presente giudizio, completa la disciplina estendendo la previsione del medesimo termine decadenziale anche all’ipotesi di azione risarcitoria preceduta dall’impugnazione del provvedimento lesivo, facendo tuttavia decorrere il termine non dalla conoscenza di questo ma dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di annullamento.

E’ ampiamente nota la ratio posta alla base dei termini di decadenza previsti in materia di annullamento di atti giuridici emanati da poteri pubblici e da soggetti privati: si tratta dell’esigenza di certezza del diritto e di stabilità dei rapporti giuridici, connessa al rilievo che l’atto pone un assetto di interessi rilevante sul piano superindividuale.

Il bilanciamento fra il diritto degli interessati a sollecitare un sindacato giurisdizionale dell’atto, e l’interesse a definire sollecitamente la relativa vicenda in modo da non esporre ad un arco temporale eccessivamente lungo la sorte della fonte di un rapporto giuridico rilevante per una collettività di soggetti, consente di individuare nella previsione di un termine di impugnazione a pena di decadenza – purché il relativo termine sia ragionevole e non renda eccessivamente difficile l’esercizio del diritto – il soddisfacente punto di equilibrio del sistema.

L’azione risarcitoria, già sul piano strutturale, si pone al di fuori di questa problematica: l’esposizione del debitore, pubblico o privato, alla domanda di risarcimento non incide minimamente sulla dinamica dei rapporti giuridici di cui lo stesso soggetto è titolare, né sulla certezza delle situazioni e posizioni giuridiche correlate, rilevando solo sul piano della reintegrazione patrimoniale dello spostamento di ricchezza conseguente all’illecito.

Nella stessa sistematica del codice del processo amministrativo (art. 7, comma 4) il risarcimento del danno è incluso fra i “diritti patrimoniali consequenziali” all’annullamento del provvedimento lesivo.

Se la discrezionalità legislativa avesse inteso porre un limite temporale all’esercizio dell’azione risarcitoria compatibile con la natura del rimedio, avrebbe potuto ragionevolmente farlo attraverso l’individuazione di un congruo termine prescrizionale (in tesi diverso da quello stabilito dal diritto comune, ove sussista una congrua e ragionevole giustificazione per la differenziazione).

Un ininterrotto e coerente insegnamento, già sul piano istituzionale, chiarisce, infatti, che mentre la prescrizione ha per oggetto un rapporto (azione o diritto sostanziale) che per effetto di essa si estingue, “la decadenza ha per oggetto un atto che per effetto di essa non può più essere compiuto”.

La disciplina dell’azione di risarcimento del danno appare dunque ragionevolmente compatibile con la prima, e non anche con la seconda.

Ma, ciò che appare maggiormente rilevante, è il rilievo che, sul piano della teoria generale del diritto, la differenza strutturale ed effettuale fra prescrizione e decadenza denota una precisa – e diversa – connotazione funzionale dei due istituti, così da non consentirne (se non violando il canone di ragionevolezza) un’applicazione indifferenziata.

Secondo i risalenti insegnamenti della dottrina civilistica, mentre la prescrizione è in qualche modo legata all’inerzia del titolare del diritto, la decadenza esprimerebbe “un’esigenza di certezza del diritto così categorica da essere tutelata indipendentemente dalla possibilità di agire del soggetto interessato”.

Ora, come accennato, in materia di risarcimento del danno una esigenza di certezza, che implichi una compressione assai significativa del diritto del danneggiato di azionare i relativi rimedi, non pare affatto sussistente: tanto più nell’ipotesi – quale quella in esame – di azione risarcitoria non autonoma, ma conseguente alla proposizione dell’azione di annullamento del provvedimento lesivo.

Uno schema logico di utile riferimento si rinviene nella disciplina posta dall’art. 1495 del codice civile, in materia di azione di risarcimento dei danni per vizi della cosa venduta: laddove la denuncia del vizio deve avvenire entro un brevissimo termine di decadenza (correlato all’esigenza di certezza dei traffici), mentre la successiva azione risarcitoria, subordinata alla tempestiva (e pregiudiziale) denuncia, ma di per sé ormai estranea all’esigenza posta alla base del ridetto termine decadenziale, soggiace – coerentemente – al un termine prescrizionale annuale.

La situazione è strutturalmente identica a quella dell’illecito da atto della pubblica amministrazione, nell’ipotesi – qui ricorrente – in cui l’azione risarcitoria sia preceduta dalla pregiudiziale impugnazione della statuizione lesiva: con la significativa differenza , tuttavia, che il termine decadenziale per l’impugnazione del provvedimento è ampiamente giustificato dalla funzione cui lo stesso provvedimento assolve, mentre, diversamente dalla sistematica del codice civile, la successiva azione risarcitoria è nel codice del processo amministrativo anch’essa soggetta ad un termine decadenziale, peraltro infrannuale (con significativa compressione del diritto di difesa del danneggiato, in assenza di un reale e giustificato interesse antagonista ).

Mentre nel caso di azione risarcitoria autonomamente proposta (art. 30, comma 1, cod. proc. amm.) l’accertamento – sia pure meramente incidentale, e dunque senza effetti sostanziali sul rapporto – della illegittimità del provvedimento veicolo di lesione potrebbe in tesi giustificare la previsione di tale termine, la definitiva certezza giuridica prodotta – sul rapporto – dal passaggio in giudicato della sentenza che statuisce sulla domanda di annullamento del provvedimento, priva di qualsivoglia giustificazione razionale la previsione di un brevissimo termine decadenziale per la proposizione dell’azione risarcitoria incidente unicamente sul profilo della regolazione patrimoniale delle conseguenze dell’illecito.

7. I contributi della dottrina hanno generalmente formulato ampie riserve critiche sulla soluzione recata dalla disposizione in esame.

Si è, in particolare, posto in evidenza da parte dei più autorevoli studiosi del processo amministrativo, come la disciplina recata dall’art. 30 risponda unicamente ad una logica compromissoria, volta a conciliare le opposte posizioni emerse nella giurisprudenza della Corte di Cassazione e in quella del Consiglio di Stato in merito alle condizioni per l’accesso al rimedio risarcitorio in materia di illecito della pubblica amministrazione, risolvendo per legge il conflitto fra i due massimo organi giurisdizionali.

Si sarebbe così affermata la possibilità teorica della proponibilità dell’azione risarcitoria autonoma, ma assoggettandola ad un breve termine di decadenza (con il risultato pratico di non differenziare di molto, quanto a condizioni di accesso, le due forme di tutela).

La critica più diffusa poggia sulla “mancanza di tenuta sul piano teorico” della soluzione prescelta: id est, sulla irragionevolezza in sé della disposizione, sulla intrinseca carenza di una sua giustificazione razionale, a prescindere dai risvolti in ordine alla compressione del diritto di difesa.

In questo senso la previsione di un termine decadenziale per proporre azione risarcitoria autonoma (fattispecie invero puramente teorica, anche a seguito dell’interpretazione dell’impianto codicistico resa dal diritto vivente: Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, decisione n. 3 del 2011), pare confermare questa lettura: il codice non ha inteso discostarsi formalmente dall’indicazione del giudice dei diritti, ed ha ammesso l’autonoma proponibilità dell’azione risarcitoria, ma sottoponendola ad un regime – almeno in punto di sbarramento temporale – molto più simile a (e compatibile con) quello dell’azione di annullamento del provvedimento amministrativo, che a quello della domanda di risarcimento del danno.

Se già questo esito appare fortemente discutibile, ancor di più lo è l’estensione – ad opera del comma 5 dell’art. 30 – di tale regime alla diversa fattispecie di azione risarcitoria preceduta dalla (pregiudiziale) impugnazione del provvedimento lesivo, caratterizzata, come accennato, dalla avvenuta, irrevocabile formazione della certezza giuridica sul profilo sostanziale della spettanza.

In disparte ogni considerazione sulla effettiva eziologia storico-giuridica del regime censurato, esso appare al collegio irragionevolmente e ingiustificatamente compressivo del diritto del danneggiato a richiedere il risarcimento del danno.

Il parametro di legittimità della decadenza convenzionale (art. 2965 cod. civ.) è dato dal limite della eccessiva difficoltà nell’esercizio del diritto: dal che discende la centralità, anche nelle ipotesi di decadenza legale, del criterio funzionale (l’unica differenza risiede nel fatto che mentre nel primo caso la verifica della rispondenza al cennato parametro funzionale è operata dal giudice comune, nel secondo caso, relativo alla decadenza legale, la valutazione è affidata al Giudice delle leggi).

Il profilo di irragionevolezza che vizia la disposizione in esame attiene quindi sia alla previsione di un termine stabilito a pena di decadenza, al di fuori del presupposti legittimanti una così incisiva compressione del’esercizio del diritto (senza la possibilità di conciliare la delimitazione temporale con il più favorevole – per il danneggiato – regime della prescrizione); sia nella concreta fissazione di tale termine in centoventi giorni.

8. Il giudizio di irragionevolezza si fonda sia sulle argomentazioni di ordine teorico-generale e disciplinare sopra esposte, sia sul rilievo della inesistenza di un tertium comparationis che giustifichi l’introduzione di simile disciplina.

La Relazione al codice del processo amministrativo afferma che il termine di centoventi giorni si giustificherebbe “sul presupposto che la previsione di termini decadenziali non è estranea alla tutela risarcitoria, vieppiù a fronte di evidenti esigenze di stabilizzazione delle vicende che coinvolgono la pubblica amministrazione”.

Quanto alla prima parte dell’affermazione, non è dato rinvenire riscontri alla stessa: se non, come osservato, in relazione al diverso profilo della esistenza, nell’ambito della complessa disciplina dei rimedi contro l’illecito, di termini decadenziali relativi ad attività propedeutiche alla proposizione dell’azione di danno, ma da questa strutturalmente e funzionalmente distinte (ciò che, nel processo amministrativo, è garantito dal termine per la sollecita impugnazione del provvedimento lesivo; e, nell’esempio tratto dal diritto civile relativo alla garanzia per i vizi della cosa venduta, dalla tempestiva denuncia della scoperta del vizio).

Quanto alla seconda parte dell’affermazione, se le “esigenze di stabilizzazione delle vicende che coinvolgono la pubblica amministrazione” possono avere un qualche rilievo oltre la prospettiva meramente caducatoria (il che è tradizionalmente escluso), ciò potrebbe al più riscontrarsi nell’ipotesi di proposizione dell’azione risarcitoria in via autonoma, con contestuale sindacato (incidentale) della legittimità del provvedimento lesivo.

Non già nell’ipotesi, qui ricorrente, in cui detto sindacato è stato definitivamente compiuto, con efficacia di giudicato.

9. La violazione degli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione si configura anche per altra via.

All’esito della ricostruzione del sistema di tutela del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, cui ha recato un fondamentale contributo la sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale, si ritiene comunemente che il rimedio risarcitorio sia inscindibilmente legato, in relazione di complementarietà, a quello caducatorio: la tutela costituzionale dell’interesse legittimo è soddisfatta solo se il titolare può chiedere, oltre all’annullamento del provvedimento lesivo, il risarcimento per equivalente del danno che traguardi e completi gli effetti del giudicato di annullamento.

L’azione di danno è dunque costituzionalmente necessaria; in questo senso la Corte costituzionale è stata ancora più esplicita nella successiva sentenza n. 191 del 2006: “laddove la legge (……..) costruisce il risarcimento del danno, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, come strumento di tutela affermandone – come è stato detto – il carattere “rimediale”, essa non viola alcun precetto costituzionale e, anzi, costituisce attuazione del precetto dell’art. 24 Cost. laddove questo esige che la tutela giurisdizionale sia effettiva e sia resa in tempi ragionevoli”.

La concentrazione dei rimedi in capo al giudice amministrativo, tuttavia, funzionale alla contrazione dei tempi processuali, non può avvenire a condizione della introduzione di condizioni di accesso alla tutela assolutamente (e senza ragione) restrittive.

Se l’attribuzione alla giurisdizione amministrativa della cognizione dell’azione risarcitoria, coerente alla pienezza della tutela in termini ragionevoli, comporta come contropartita l’introduzione di un regime che, derogando al diritto comune, comprime significativamente le condizioni per l’accesso al rimedio, risulta palesemente contraddetta la finalità stessa della previsione dello strumento risarcitorio accanto a quello caducatorio nel sistema di tutela dell’interesse legittimo: in altre parole, viene contraddetta l’esigenza di pienezza ed effettività della tutela..

La richiamata giurisprudenza costituzionale ha reso, invero, le riportate affermazioni in presenza di una disciplina dell’ accesso al rimedio risarcitorio nei confronti della pubblica amministrazione regolata dal diritto comune: dal che discende il quesito circa la perdurante attualità di quelle considerazioni, in punto di conformità allo standard di tutela posto dall’art. 24 della Costituzione, alla luce della disciplina introdotta dal codice del processo amministrativo, e in particolare della disposizione censurata..

10. E’ appena il caso di osservare che è estranea alla prospettazione del vizio di legittimità costituzionale la qualificazione, in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo, della situazione giuridica soggettiva del danneggiato che domanda il risarcimento del danno da illegittimo esercizio della funzione amministrativa.

Nel primo caso, non trova ragionevole giustificazione una disciplina diversa da quella stabilita per ogni diritto soggettivo dalla clausola generale di responsabilità civile (la pubblica amministrazione essendo un debitore la cui posizione in nulla si differenzia, sotto questo profilo, da quella dell’obbligato ex delicto).

Nel secondo caso, la complementarietà dei rimedi evocata dalla citata giurisprudenza costituzionale ha un senso se si mantiene la diversità strutturale degli stessi e delle corrispondenti tecniche di tutela: se invece si assimila – quanto alle condizioni di accesso – quello risarcitorio a quello caducatorio, la complementarietà si riduce ad una astratta petizione di principio, risolvendosi in concreto la tutela dell’interesse legittimo nella sola possibilità di contestare entro un breve termine di decadenza la legittimità del provvedimento (a fini caducatori, ovvero a fini risarcitori). In conclusione, appare rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30, comma 5, del d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104, per violazione degli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione.

Il processo dev’essere dunque sospeso, con trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ed ogni conseguente statuizione.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia, sede di Palermo, Sezione Prima,

non definitivamente pronunciando:

visti gli artt. 134 Cost.; 1 l. cost. 9 febbraio 1948, n. 1; 23 l. 11 marzo 1953, n. 87, :

– dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30, comma 5, del d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104, per violazione degli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione;

– visto l’art. 79, co. 1, cod. proc. amm., dispone la sospensione del presente giudizio;

– ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;

– ordina che a cura della Segreteria della Sezione la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.

Così deciso in Palermo nella camera di consiglio del giorno 5 luglio 2011 con l’intervento dei magistrati:

Filoreto **********, Presidente

**************, Co*******************************, ***********, E*********************a in segreteria il 7 settembre 2011

Redazione

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento