Il caso “Italia Programmi” è uno dei tanti che si sono susseguiti nell’ultimo periodo. Il meccanismo è semplice: alcuni prodotti software vengono offerti apparentemente in modo gratuito. Il consumatore che navigando sul sito www.italia-programmi.net/ decide di effettuare un download di un software disponibile peraltro liberamente in Rete, è costretto a registrarsi fornendo i propri dati personali, come richiesto per registrarsi e scaricare il software ricercato e attivando inconsapevolmente un contratto di abbonamento a titolo oneroso dell’importo annuale di 96 euro. Pur non essendo il primo episodio, il procedimento “Italia Programmi” è diventato recentemente “notizia da prima pagina”, perché, tra le vittime influenti della truffa, sembra che vi sia anche il nostro Presidente della Repubblica.
I casi “Private Outlet” e “Italia-Programmi” (per non citarne altri altrettanto noti) dimostrano che, se la Rete è sempre di più una “selva oscura” piena di nuove forme di spam, spyware, botnet e altri pericoli, è anche vero che i consumatori on line stanno iniziando ad avere maggiore percezione dell’esistenza di tali minacce. Lo dimostrano le oltre 25.000 segnalazioni pervenute e le numerose denunce penali depositate in Procura. Speriamo solo che, nel futuro, i consumatori non solo abbiano percezione dei rischi della Rete, ma siano anche in grado di evitarli.
Preferisco non entrare nel merito della vicenda, in quanto è ancora prematuro commentare un capo di imputazione di truffa (artt. 81, 640, comma 1 e 2, n. 2, prima ipotesi, c.p.) costruita dalla Procura di Milano e i cui reati potrebbero ampliarsi nel corso dell’indagine, mentre è interessante analizzare il provvedimento cautelare che il collega Sarzana di Sant’Ippolito ha messo parzialmente a disposizione in Rete.
Da un punto di vista strettamente giuridico, è apprezzabile che nella decisione della Autorità Garante per la Concorrenza del Mercato che ha preceduto il provvedimento cautelare emesso dal Giudice delle indagini preliminari di Milano Cristina di Censo, sia stato espressamente sancito un “divieto alla diffusione o continuazione della pratica commerciale scorretta”, senza che sia stata imposta, come nel caso “Private Outlet”, l’inibizione del sito ai soggetti che rendono accessibile l’indirizzo IP ai sensi dell’articolo 14, comma 3, dell’articolo 15, comma 2, e dell’articolo 16, comma 3, del Decreto Legislativo 9 aprile 2003, n. 70.
Il fatto che ad intervenire sia stata la Magistratura ordinaria attraverso lo strumento del sequestro preventivo ai sensi dell’art. 321 c.p.p. ha permesso di ottenere un risultato sicuramente più efficace: allo stato il sito “Programmi-net”, infatti, non è più raggiungibile on line dal territorio italiano, mentre il sito “Private Outlet” è ancora disponibile e consultabile.
Su tale strumento cautelare, fin dalla nota sentenza “Pirate Bay”, la giurisprudenza si è orientata in modo uniforme confermando a più riprese la legittimità di una inibitoria, priva del carattere reale, ove rispettosa dei principi di legalità e tipicità. Senza voler togliere i meriti alle Procure di Milano e Roma e ai rispettivi Pubblici Ministeri i quali hanno consentito di interrompere le conseguenze pregiudizievoli del reato, non si può non rilevare come tale strumento presenti profili problematici, se non da un punto di vista giuridico, quantomeno da un punto di vista tecnico.
A parte alcuni disguidi tecnici fisiologici in un provvedimento che comporta necessariamente grande cooperazione e coordinamento degli Access Providers coinvolti (), è fatto notorio che un semplice proxy reperibile gratuitamente in Rete, consente ancor oggi di poter ancora accedere al sito incriminato.
Per questo motivo, mi chiedo se non sia giunto il momento di fare una seria riflessione sia da un punto di vista giuridico che da un punto di vista tecnico, sull’opportunità di applicazione di tale misura cautelare. Non voglio negare che sia il miglior strumento attualmente a disposizione dell’autorità giudiziaria (e forse in futuro anche dell’autorità amministrativa), ma, senza entrare nel merito della sua legittimità giuridica, non è certamente risolutivo.
La realtà digitale impone più adeguati strumenti di tutela in grado di superare l’annoso problema delle differenti giurisdizioni. In ambito internazionale, si discute, da tempo, circa la possibilità di implementare l’attuale Convenzione Cybercrime con previsioni che siano più adatte ad una realtà che negli ultimi 10 anni si è modificata in modo radicale. Se ciò dovesse avvenire, sarebbe opportuno includere in questo nuovo testo, una previsione normativa che affronti il tema del sequestro/inibizione di siti web, garantendo, in presenza di circostanze di fatto che permettano di ricondurre in modo evidente l’attività illecita al territorio nazionale dell’Autorità procedente, un intervento extra-territoriale.
Certo, non è facile come scriverlo su un post, ma, prima o poi, sarà necessario andare in questa direzione.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento